Si chiama Plasticosi, ed è la malattia che colpisce gli animali selvatici che ingeriscono la plastica. A caratterizzarla, per la prima volta, sono stati dei ricercatori australiani, che hanno pubblicato uno studio sul Journal of Hazardous Materials.
Il gruppo di studiosi, che ha collaborato con il Museo di storia naturale di Londra, ha osservato gli uccelli marini nella zona sud-orientale del Pacifico. Durante le osservazioni, hanno scoperto i primi casi della malattia, che consiste in una persistente infiammazione negli organi dell’apparato digerente, con alterazioni allo stomaco ed una riduzione dell’assorbimento dei nutrienti.
Ad infiammare e a provocare danni gli organi degli animali selvatici, sono i piccoli pezzi di plastica che ingoiano. Si tratta di una malattia fibrotica, con cicatrici e deformazioni nei tessuti che hanno “effetti a catena su crescita, digestione e sopravvivenza” – sottolineano gli studiosi.
Plasticosi sulla berta: simile all’asbestosi
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Le prime osservazioni della malattia hanno riguardato esemplari di berta piedicarnicini (Ardenna carneipes). Questa specie è tra la più contaminate dalla plastica, nonostante viva in un vero e proprio paradiso terrestre, quale è l’isola di Lord Howe, ad oltre 600 chilometri dalle coste australiane, con limitati accessi turistici e raggiungibile in due ore di volo da Sidney. Si tratta infatti di uccelli che mangiano i pezzi di plastica che trovano in mare, perché li scambiano per cibo.
“In risposta all’infiammazione – scrivono i ricercatori – il tessuto cicatriziale può formarsi attorno a stimoli infiammatori persistenti, causando gravi problemi cronici se l’irritante non viene rimosso. Diverse malattie fibrotiche sono state collegate a questo continuo processo di guarigione del danno, come la silicosi e l’asbestosi. In quanto composti relativamente durevoli, la plastica può indurre una risposta simile, in cui un’eccessiva formazione di tessuto cicatriziale in risposta all’infiammazione indotta dalla plastica può portare a organi che diventano fibrotici“.
“Finora, è noto che la plasticosi colpisce solo il sistema digestivo, ma ci sono suggerimenti che potrebbe potenzialmente colpire altre parti del corpo, come i polmoni” – sottolineano dal Museo di storia naturale di Londra.
I rischi della plastica per le altre specie selvatiche
Nella fauna selvatica, oggetti macroplastici (<5 mm) grandi o taglienti possono portare al blocco del tratto digestivo, ulcere o perforazioni. Possono anche alterare il comportamento alimentare: le cicatrici infatti possono rendere lo stomaco meno flessibile e meno efficace nel processo digestivo; negli uccelli più piccoli il rischio è anche la morte per fame perché lo stomaco si riempie di oggetti non digeribili. Quando ingerite e frammentate in pezzi più piccoli, parliamo di micro (1 µm-5 mm) o nanoplastiche (<1 µm).
I rischi della plastica nell’ambiente per la salute degli animali sono descritti molto dettagliatamente dagli studiosi. Nelle giovani berte, la quantità di plastica nel corpo è stata associata ad una diversa lunghezza delle ali; mentre la quantità di oggetti, al peso complessivo dell’uccello.
“Di crescente preoccupazione è l’aumento dei frammenti di plastica più piccoli segnalati e la minaccia emergente rappresentata da queste piccole particelle. Dal plancton alle balenottere azzurre (Balaenoptera musculus), si pensa che la plastica abbia un impatto su oltre 1200 specie marine. (…)
Questi minuscoli frammenti di plastica possono essere assorbiti dal tratto digestivo, trasportati in tutto il corpo attraverso il flusso sanguigno e accumulati nei tessuti e negli organi. Le plastiche (< 20 µm) possono penetrare nella maggior parte degli organi, con plastiche (< 10 µm) in grado di attraversare le membrane cellulari, potenzialmente danneggiando i tessuti e le strutture intracellulari. Le plastiche microscopiche possono anche attraversare sia la barriera emato-encefalica che la placenta“. Inoltre, “le plastiche ambientali esposte agli agenti atmosferici mostrano proprietà fisiche e chimiche diverse rispetto alle plastiche utilizzate nella maggior parte degli studi di laboratorio e hanno maggiori probabilità di essere soggette a fagocitosi da parte delle cellule“.