Carcere italiano e diritto alla salute

La salute è un diritto fondamentale dell’individuo e, come tale, lo deve essere anche nelle carceri, lì dove il detenuto deve essere rieuducato per un giusto inserimento nella società. A confermarlo è la nostra Costituzione che ha recepito e fatto propri i principi della Conferenza Internazionale della Sanità, andando a definire la salute come ‘fondamentale diritto dell’individuo‘ e come ‘interesse della collettività‘ (art.32, 1°comma).

Diritto alla salute nelle carceri, quindi l’effettivo accesso alle cure di chi deve espiare la propria pena per qualsiasi reato, resta un punto fondamentale e cruciale che la nostra Repubblica tutela nell’interesse della singola persona e della collettività.

La riforma nel carcere e l’ordinamento penitenziario

Ma bisogna fare un passo indietro e riavvolgere il nastro. La sanità penitenziaria ha avuto inizio nel 1970 con la legge n.740, quella che per la prima volta ha messo al centro il cittadino detenuto e le cure mediche da ricevere dietro le sbarre. Prima di quell’anno, infatti, questo elemento non era specificato e non era chiaro: tutto dipendeva dalla decesione del direttore, del comandante o del medico.

La salute del detenuto era nelle loro mani, nelle loro valutazioni. Solo in un secondo momento, con la legge 354 del 1975, quella sull’Ordinamento Penitenziario, si è stabilito che la prestazioni sanitarie dovevano essere erogate da ‘medici incaricati per l’assistenza di base, da medici specialisti, da infermieri e da esperti qualificati‘. Tutti, quindi, indipendentemente dal reato commesso, hanno diritto all’assistenza e alle cure.

L’assistenza medica e la salute nelle carceri oggi in Italia

Assistenza medica all’interno degli istituti penitenziari, prestazioni tempestive, visite mediche, continuità dei trattamenti sanitari in corso. Questi sono i principi cardine da rispettare. Fondamentale da citare anche l’articolo 11 della legge 354/1975, quello dell’ordinamento penitenziario, che è stato riformulato e che ribadisce tutto ciò che va rispettato e seguito:

  • i detenuti e gli internati hanno diritto a prestazioni sanitarie, dalla prevenzione alla riabilitazione, come tutti i cittadini;
  • a disposizione dei detenuti deve esserci la carta dei servizi sanitari, quella adottata dall’azienda sanitaria locale;
  • i giudici possono decidere eventuali trasferimenti in strutture sanitarie esterne o autorizzare delle visite a proprie spese da professionisti di fiducia;
  • deve esserci quella continuità terapeutica per i detenuti trasferiti in altre sedi.

Ma non finisce qui. L’attività sanitaria deve:

  • rispondere ai bisogni di salute del detenuto, che non deve rappresentare una figura marginale;
  • garantire le visite giornaliere ai detenuti ammalati o a quelli che ne fanno richiesta in base al quadro clinico di appartenenza;
  • svolgere le proprie funzioni senza nessun limite di orario.

Da qui, quindi, il ritorno al diritto alla salute, da intendere come ‘equilibrio psico-fisico dinamico con il contesto sociale in cui la persona vive‘. Stando alla definziione riportata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è un diritto che spetta a ogni persona, inalienabile e indipendentemente dalla condizione di libertà o detenzione. Tutti devono essere seguiti, a tutti va data la possibilità di curarsi.

Salute nelle carceri: art. 11 dell’ordinamento penitenziario

Tutto quello che riguarda la sanità nelle carceri italiane è contenuto nell’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario. Che, nel dettaglio, prevede un servizio medico o farmaceutico a disposizione del detenuto e degli internati; uno specialista in psichiatria; il trasferimento in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura.

Ma il diritto alla salute è rispettato?

Da una parte una legge messa nera su bianco, dall’altra una situazione attuale che non sembra rispettare totalmente il principio. Tanti, troppi, i detenuti nei nostri istituti. E a tutti loro andrebbe garantito il diritto alla salute. Andrebbe, al condizionale, perché di fatto, la cronaca, purtroppo, ci dice il contrario: la carenza di personale, il sovraffollamento e le condizioni sempre più critiche non fanno altro che presentare un quadro complicato. E di suicidi, di chi negli istituti di pena decide di mettere la parola fine alla propria vita, ce ne sono stati tanti nell’ultimo periodo.

La domanda, quindi, sorge spontanea: il diritto alla salute nelle carceri è garantito totalmente come dovrebbe? La mancanza di personale sanitario, con formazione specifica, e il poco dialogo tra le diverse regioni, continuano a giocare un ruolo fondamentale. In negativo. E il Covid non ha fatto altro che peggiorare ed esasperare una situazione già di per sé difficile.

Lucanìa: ‘Il Covid-19 ha peggiorato la situazione’

“ll COVID-19 ha colpito la medicina penitenziaria non solo per un il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte”– ha spiegato Luciano Lucanìa, presidente SIMSPe- nel 2022, durante il XXIII Congresso SIMSPe – Agorà Penitenziaria.

A tutto questo va “aggiunto il complesso problema emerso dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di REMS o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità”. C’è chi, tra il personale medico, si sente tutelato. E chi, tra i detenuti, abbandonato.

L’aumento dei suicidi negli ultimi anni

Personale medico stremato da una parte, assistenza sanitaria non sempre rispettata dall’altra. E il crescente aumento dei suicidi in carcere è purtroppo una realtà. Anzi, ancor più un’emergenza. Nel 2022 i suicidi in carcere, in Italia, sono stati 84 e nell’anno in corso se ne contano già 51.

“Questo dato deve farci riflettere, ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire- ha dichiarato Luciano Lucanìa- Bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri, su coloro che sono in custodia cautelare e quanti in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che può portare al suicidio.

Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove SIMSPe e il personale sanitario possono partecipare, anche se componente minoritaria: affinché il supporto scientifico sia concreto, è necessario che gli istituti siano sicuri per il personale sanitario e dotati delle risorse necessarie. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta”.

Perché il carcere dovrebbe rieducare, rendere il detenuto una persona migliore per il nuovo inserimento nella società. Dovrebbe aiutare a ricominciare da zero, a ricomporre il puzzle dall’inizio, pezzo dopo pezzo. E non ridurre in pezzi e far sentire soli. Senza, spesso, quel diritto alla salute che dovrebbe essere di tutti. Nessuno escluso.