Un nuovo studio rivela una drammatica correlazione tra le infezioni da SARS-CoV-2 e l’incremento dei casi di sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS). Questa condizione debilitante, già presente prima della pandemia, sembra ora diffondersi a ritmi preoccupanti

Conosciamo la sindrome della stanchezza cronica 

Uno studio rivela una correlazione tra le infezioni da SARS-CoV-2 e l’incremento dei casi di sindrome da stanchezza cronica

La sindrome da stanchezza cronica, o encefalomielite mialgica (ME/CFS), è una malattia devastante che priva chi ne soffre della possibilità di condurre una vita normale. Caratterizzata da una spossatezza profonda che non migliora con il riposo, questa condizione è spesso accompagnata da sintomi come il malessere post-sforzo, problemi cognitivi, intolleranza ortostatica e sonno non ristoratore. Sebbene ignorata e sottovalutata, la pandemia da COVID-19 ha riacceso l’attenzione su questa patologia, spingendo gli esperti a indagare il legame tra le infezioni virali e l’aumento dei casi.

Uno studio approfondito 

Un recente studio, pubblicato nel Journal of General Internal Medicine, ha evidenziato dati inquietanti. Analizzando un ampio campione di pazienti, i ricercatori hanno scoperto che coloro che avevano contratto il SARS-CoV-2 presentavano una probabilità 7,5 volte superiore di sviluppare ME/CFS rispetto a chi non era stato infettato.

Lo studio, finanziato dal National Institutes of Health (NIH) negli Stati Uniti, ha coinvolto quasi 12mila persone che avevano superato il COVID-19 da almeno sei mesi, confrontandole con un gruppo di controllo non infetto. I risultati sono inequivocabili. Il 4,5% degli individui post-COVID ha soddisfatto i criteri diagnostici per ME/CFS, una percentuale nettamente superiore rispetto allo 0,6% del gruppo di controllo.

Ciò che emerge chiaramente da questi dati è che la pandemia ha agito come un catalizzatore.

Ha infatti esposto milioni di persone al rischio di sviluppare una condizione che già prima rappresentava una sfida sanitaria significativa. Prima del 2020, gli studiosi stimavano che la ME/CFS negli Stati Uniti avesse un impatto sanitario ed economico pari al doppio di quello dell’HIV/AIDS. Oggi, con milioni di casi di long COVID, gli esperti temono che i numeri possano raddoppiare nei prossimi anni.

Stanchezza cronica e COVID

Un aspetto particolarmente interessante dello studio riguarda la sovrapposizione tra ME/CFS e long COVID. Quest’ultimo termine descrive un insieme di sintomi persistenti che colpiscono le persone anche mesi dopo la guarigione dall’infezione. Tra i sintomi più comuni del long COVID figurano affaticamento cronico, problemi respiratori, dolori muscolari e cognitivi, molti dei quali coincidono con quelli della ME/CFS. Gli autori dello studio hanno rilevato che quasi il 90% dei pazienti con ME/CFS post-COVID presentava sintomi compatibili con il long COVID, suggerendo che le due condizioni potrebbero essere intrecciate, sebbene non sia ancora chiaro il loro esatto rapporto.

Tendenze demografiche a confronto 

L’analisi ha anche messo in luce alcune tendenze demografiche. La ME/CFS post-COVID sembra colpire con maggiore frequenza le donne, soprattutto tra i 46 e i 65 anni, e coloro che vivono in aree rurali. La ricerca indica inoltre che le persone non vaccinate sono risultate più vulnerabili, sollevando ulteriori interrogativi sull’importanza della vaccinazione non solo per prevenire l’infezione, ma anche per ridurre il rischio di complicazioni a lungo termine.

Nonostante l’evidenza di una correlazione tra le infezioni virali e la ME/CFS, la comprensione delle cause profonde di questa patologia resta limitata. Diversi studi hanno suggerito che virus come Epstein-Barr, Ross River e altri patogeni potrebbero fungere da innesco, attivando una risposta immunitaria anomala o provocando infiammazioni croniche che contribuiscono alla comparsa della malattia. La pandemia ha ora fornito un ulteriore impulso alla ricerca in questa direzione, ma molto rimane da fare per decifrare i meccanismi sottostanti.

Urgono strumenti diagnostici più precisi 

Un elemento cruciale per il futuro sarà la capacità di sviluppare strumenti diagnostici più precisi. Attualmente, la diagnosi di ME/CFS si basa su criteri clinici che richiedono almeno sei mesi di sintomi persistenti. Tuttavia, questa metodologia risulta insufficiente per identificare precocemente i casi e avviare interventi mirati. L’assenza di una causa definita rende inoltre estremamente complesso il trattamento, che si limita alla gestione dei sintomi attraverso approcci personalizzati, spesso con risultati variabili.

La pandemia non solo ha aggravato il problema, ma ha anche evidenziato la necessità di un cambiamento radicale nell’approccio a questa malattia. La ME/CFS è stata troppo a lungo trascurata, relegata ai margini delle priorità sanitarie globali. Ora che milioni di persone si trovano ad affrontare le conseguenze a lungo termine del COVID-19, è imperativo investire maggiori risorse nella ricerca, nella sensibilizzazione e nello sviluppo di terapie innovative.