La memoria gioca spesso brutti scherzi, soprattutto quando viviamo due esperienze simili, in un breve lasso di tempo. In questo caso, può succedere che confondiamo i ricordi, almeno inizialmente. Con il passare del tempo tuttavia, la nebbia della confusione si dissipa e tutto torna come prima. Da cosa dipende? E quali effetti ha sul comportamento? A spiegarlo, un ricerca pubblicata su Nature Neuroscience
Scherzi a parte…il processo di chiarificazione mnemonica
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Gli scherzi della memoria, rappresentano una sfida per la scienza. Ebbene, una ricerca guidata dal Dr. Dheeraj Roy, del Dipartimento di Fisiologia e Biofisica della Jacobs School of Medicine and Biomedical Sciences UB di Buffalo (NY), ha spiegato uno dei misteri della mente.
Parliamo del cosiddetto “processo di chiarificazione mnemonica”, un fenomeno grazie al quale, dopo un breve periodo in cui i ricordi di eventi ravvicinati si sovrappongono, tutto torna come prima.
Secondo il Dr. Roy, la chiave della “stabilizzazione” risiede in alcune proteine incaricate di immagazzinare e recuperare informazioni.
Esse svolgerebbero infatti un ruolo fondamentare nel plasmare la nostra capacità di discriminare tra esperienze simili nel corso del tempo. Ma veniamo allo studio.
Cortocircuito e amnesia: gli scherzi degli engrammi
La ricerca si è concentra sugli engrammi, cellule neuronali del cervello che immagazzinano informazioni sulla memoria. «Gli engrammi sono i neuroni che vengono riattivati per supportare il richiamo della memoria», afferma Roy. «Quando gli engrammi vengono interrotti, si verifica l’amnesia».
Nei minuti e nelle ore che seguono immediatamente un’esperienza, il cervello ha infatti bisogno di consolidare l’engramma per immagazzinarlo.
Cosa succede durante questo processo di consolidamento, cioè tra il momento in cui si forma un engramma e il momento in cui è necessario richiamare quel ricordo in seguito?
I ricercatori hanno cercato di rispondere a questa domanda attraverso lo sviluppo di un innovativo modello computazionale, focalizzato sull’apprendimento e la formazione della memoria.
Spieghiamo il processo
Il processo inizia con le informazioni sensoriali, che rappresentano lo stimolo iniziale. Queste affluiscono all’ippocampo, la regione del cervello deputata alla creazione dei ricordi.
Qui, inizia l’attività dei neuroni, alcuni dei quali agiscono come eccitatori, altri come inibitori.
Ebbene, è proprio l’intenso “dialogo neuronale” a svolgere un ruolo determinante nella creazione e nella formazione dei ricordi.
Cosa è emerso dallo studio? Il modello computazionale ha svelato che i neuroni attivati nell’ippocampo, non si attivano simultaneamente. Anzi sono asincronizzati. In pratica, ognuno scrive una “partitura diversa”.
Di conseguenza, le informazioni tendono a confondersi e a sovrapporsi.
Con il passare del tempo e il consolidarsi dei ricordi, tuttavia la situazione si normalizza.
«L’attivazione delle cellule engramiche durante il richiamo della memoria non è un processo “tutto o niente”. In genere deve raggiungere una soglia (cioè una percentuale dell’engramma originale) per un richiamo efficiente» Questa la spiegazione del principale autore dello studio.
«Il nostro modello è il primo a dimostrare che la popolazione engramica non è stabile: il numero di cellule engramiche che vengono attivate durante il richiamo diminuisce con il tempo. Questo significa che sono di natura dinamica». Cerchiamo di capire meglio.
Gli engrammi dinamici, necessari per la discriminazione della memoria
«Durante il periodo di consolidamento successivo all’apprendimento, il cervello lavora attivamente per separare le due esperienze e questo è forse uno dei motivi per cui il numero di cellule engramiche attivate diminuisce nel tempo per un singolo ricordo», prosegue lo scienziato.
«Se fosse vero, questo spiegherebbe perché la discriminazione della memoria migliora col passare del tempo. È come se inizialmente la memoria dell’esperienza fosse una grande autostrada, ma col passare del tempo, nel corso del periodo di consolidamento dell’ordine di minuti o ore, il cervello li divide in due corsie in modo da poter discriminare tra i due».
Il fenomeno ha delle ripercussioni a livello comportamentale?
Scherzi della memoria: l’esperimento condotto sui topi
Per approdare alla cosiddetta “Prova del nove”, il ricercatori ha effettuato un esperimento comportamentale su topi.
Inizialmente, i roditori sono stati posizionati all’interno di due scatole distinte, ognuna caratterizzata da odori e condizioni di illuminazione uniche.
La prima, ricreava un ambiente neutro, la seconda riservava loro una sorpresa: una lieve scossa alla zampina.
Duplice, l’obiettivo del test: valutare la reazione degli animali e comprendere come avrebbero elaborato e memorizzato l’esperienza.
Poche ore dopo, i topi hanno mostrato ricordi di paura. Non appena inseriti nelle scatole (anche in quella “neutra”), si paralizzavano.
Sembrava non riuscissero a discriminare quale delle due avesse provocato la scossa.
Dopo dodici ore tuttavia, i roditori hanno mostrato paura solo quando sono stati posizionati all’interno della “casa degli orrori”, il contenitore che provocava la scossa.
Attività neurone dei topi: la “Prova del nove” conferma la tesi
Utilizzando una tecnica avanzata sensibile alla luce, i ricercatori hanno quindi tracciato l’attività neurale nell’ippocampo dei topi mentre esploravano le scatole.
In questo modo, gli esperimenti hanno consentito di seguire il percorso di una singola cellula engramica attraverso diverse esperienze e nel corso del tempo.
«Posso dirvi letteralmente come una cellula engramica, o un suo sottoinsieme, ha risposto a ciascun ambiente nel tempo e correlarlo alla loro memoria discriminativa», svela Roy.
Un aspetto fondamentale del lavoro ha insomma dimostrato che, in linea con le previsioni degli studi computazionali iniziali del team, il numero di cellule engramiche coinvolte in un singolo ricordo diminuisce nel tempo.
Prova del nove riuscita.
Scherzi della memoria: importanza dell’esperimento
Il risultato fornisce una preziosa prospettiva sulla dinamica della memoria nel cervello dei topi e potrebbe avere implicazioni notevoli per la comprensione dei meccanismi di memorizzazione negli esseri umani.
Potrebbe altresì rivelarsi utile per affrontare disturbi della memoria, tra cui il morbo di Alzheimer.
«Quando il cervello impara qualcosa per la prima volta, non sa quanti neuroni siano necessari e quindi viene reclutato apposta un sottoinsieme più ampio di neuroni», prosegue il leader dello studio. «Mentre il cervello stabilizza i neuroni, consolidando la memoria, elimina i neuroni non necessari, quindi ne sono necessari meno e così facendo aiuta a separare gli engrammi per ricordi diversi».
Tradotto in parole semplici?
«La ricerca ci spiega il motivo per cui si verifica la disfunzione della memoria, cioè che c’è qualcosa di sbagliato nella finestra iniziale dopo la formazione della memoria in cui gli engrammi devono cambiare»rimarca Roy.
Prossimo step
Il prossimo passo coinvolge lo studio di modelli murini di malattia di Alzheimer in fase iniziale. L’obiettivo è esaminare come mai gli engrammi si formano ma non vengono stabilizzati correttamente. Questo approccio fornirà una visione più chiara delle alterazioni genetiche che si verificano quando la popolazione di engrammi diminuisce.
«Osservando i modelli murini, possiamo chiederci: ci sono geni specifici che sono alterati? E se sì, allora finalmente abbiamo qualcosa da testare. Possiamo modulare il gene per questi processi di ‘raffinazione’ o ‘consolidamento’ degli engrammi per vedere se questo ha un ruolo nel migliorare le prestazioni della memoria», concede lo studioso.
Fonti
Gli engrammi dinamici e selettivi emergono con il consolidamento della memoria, Nature Neuroscience (2024). www.nature.com/articles/s41593-023-01551-w
Materiale fornito dall’Università di Buffalo