L’insufficienza renale acuta (AKI) è una delle complicanze più gravi nei pazienti con cirrosi epatica. La prevenzione e il trattamento della patologia rappresenta una priorità nella gestione di questi pazienti.
Un ampio studio internazionale pubblicato su “The Lancet Gastroenterology & Hepatology” ha analizzato questa condizione in oltre 3.800 pazienti ricoverati per cirrosi scompensata. Si tratta del più grande studio mai condotto sull’argomento, poiché ha interessato 65 ospedali di 27 paesi di tutti i continenti.
I ricercatori hanno evidenziato differenze significative nel modo in cui questa condizione è trattata. I risultati possono contribuire a migliorare le strategie di cura e ottimizzare la gestione clinica dei pazienti.
Pazienti con cirrosi più vulnerabili all’AKI
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Con questo nuovo studio, il team di ricerca ha voluto fornire una visione globale dell’epidemiologia e della gestione dell’AKI nei pazienti con cirrosi.
«I pazienti con cirrosi scompensata sono particolarmente vulnerabili all’insufficienza renale acuta per le caratteristiche intrinseche di questa sindrome, caratterizzata da una ipovolemia efficace». Così Salvatore Silvio Piano, Dipartimento di Medicina dell’Università degli Studi di Padova, medico della UO di Medicina Interna a Indirizzo Epatologico dell’AO-Università di Padova. «Il flusso sanguigno verso i reni si riduce e il corpo attiva meccanismi di compensazione che possono peggiorare ulteriormente la funzione renale. Infezioni, sanguinamenti o un uso eccessivo di diuretici possono rapidamente scatenare un’AKI, con un impatto drammatico sulla prognosi».
Insufficienza renale acuta presente nel 38% dei pazienti con cirrosi
Gli studiosi hanno dimostrato che l’AKI è molto comune: il 38% dei pazienti ricoverati per complicanze della cirrosi infatti, presentava questa condizione.
La forma più comune di AKI è quella secondaria ad ipovolemia, ovvero alla diminuzione del sangue che circola nell’organismo (59%). Mentre la sindrome epato-renale, spesso considerata la principale causa, rappresenta solo il 17% dei casi.
«Questo è un dato importante – spiega Piano – perché dimostra che per la maggior parte dei pazienti è sufficiente rimuovere i fattori scatenanti. E ripristinare il volume plasmatico con la somministrazione di fluidi, prima di ricorrere a terapie più aggressive come i vasocostrittori».
Inoltre, lo studio ha mostrato grandi differenze regionali nella gestione dell’AKI. In modo particolare, l’utilizzo di terapie come l’albumina e la terlipressina ha presentato un’ampia variabilità tra le diverse regioni del mondo. Difatti, il trattamento dell’AKI varia molto tra i diversi paesi e questo può influenzare gli esiti per i pazienti.
Migliorare la gestione dell’AKI nei pazienti con cirrosi
Comprendere le differenze tra i pazienti dei vari Paesi è, dunque, fondamentale per migliorare la gestione della malattia e aumentare le probabilità di sopravvivenza.
L’AKI, tuttavia, risultava associata a a un rischio elevato di mortalità: quasi un quarto dei pazienti con AKI (22,9%) è deceduto entro 28 giorni. Tra i parametri associati ad una migliore sopravvivenza è da segnalare una maggiore qualità e accessibilità alle cure nei centri coinvolti.
La ricerca aiuta a comprendere come migliorare la gestione dell’AKI nei pazienti con cirrosi a livello globale. Ovvero ottimizzando i trattamenti ospedalieri e garantendo un accesso equo e universale alle cure essenziali e a trattamenti salvavita come il trapianto di fegato.
Lo studio è stato finanziato dalla European Association for the Study of the Liver (EASL) e dalla Società Italiana di Medicina Interna (SIMI).