Un simbolo perduto e ritrovato dell’olimpismo romano
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Scrivere del Tripode di Roma Olimpica sembrerebbe semplice. È uno dei simboli più riconoscibili dei Giochi del 1960, nonostante le trasformazioni subite dagli impianti: stadi cambiati, il Palazzetto modificato, il Velodromo che non c’è più.
Eppure, del “moderno” generatore del fuoco sacro – il fuoco rubato da Prometeo agli Dei – si conosce poco, tolto il suo aspetto.
Si sa che si chiama Tripode per i tre appoggi, per la forma in grado di custodire la fiamma, per i materiali che la proteggono, per dimensioni e altezza, e per la posizione, essenziale alla rappresentazione del rito.
Il Tripode nell’era moderna: dalle origini a Roma 1960
Per i Giochi Olimpici moderni, il percorso del Tripode comincia nel 1928 ad Amsterdam, grazie all’architetto Jan Wils.
Da allora, ogni edizione – estiva e invernale – ne ha confermato l’importanza, fino ad arrivare a Roma 1960.
Il Tripode romano era collocato sulla sommità della Tribuna Tevere dello Stadio Olimpico. È rimasto nell’immaginario collettivo grazie a milioni di immagini, ma a un certo punto se ne persero le tracce.
Sembrava svanito nel nulla, quasi destinato al “bronzo” del podio più basso, fino a settembre 2020. In occasione della preparazione della Cerimonia per il Sessantesimo dei Giochi, dedicata a Marcello Garroni, ci si rese conto della sua misteriosa assenza.
Una storia carsica: apparizioni, scomparse e riemersioni
Il Tripode, come un fiume carsico, dopo l’uso episodico ai Giochi della Gioventù del 1969, 1970, 1971 e poi 1980, 1981 (tedofora Gabriella Dorio) e 1982 (tedoforo Maurizio Damilano), finì murato con altro materiale di risulta all’interno dello Stadio del Nuoto.
Riappare nel 1983, durante i XVI Campionati Europei di Nuoto.
Onesti e Garroni non c’erano più, ma grazie alla competenza di Vincenzo Vittorioso, allora Segretario Generale della FIN, il Tripode fu salvato. Restaurato, tornò visibile in un angolo dello Stadio del Nuoto, con una targa “Roma 1960”.
Successivamente, grazie anche ai passaggi di Augusto Frasca – ai Centri Stampa dei Mondiali di Atletica del 1987 e dei Campionati Mondiali Militari del 1995 – il Tripode evitò di nuovo l’oblio.
Nonostante ciò, negli anni successivi finì quasi invisibile, al punto che persino i vertici del Foro Italico ne ignoravano l’esistenza.
Il Tripode oggi: dignità da restituire
Oggi il Tripode necessita di un restauro, forse di una nuova collocazione e di un ruolo rituale nelle occasioni importanti.
Il Sessantesimo dei XVII Giochi, già rinviato come l’Olimpiade di Tokio, dovrebbe essere una di queste.
Prima di lasciare la parola all’Ultimo Tedoforo, Giancarlo Peris, e al suo “scopritore” Vincenzo Vittorioso, resta una domanda: quanti Tripodi esistono?
Osservando quello dei Giochi Invernali di Cortina 1956, si nota che è identico a quello di Roma.
Gli ultimi tedofori, Guido Caroli e Giancarlo Peris, avrebbero quindi acceso un Tripode unico?
Nel grande rapporto di Garroni e Giacomini per Roma 1960 non c’è risposta. Ma la speranza è di riuscire un giorno a ricostruire il mistero della sua ideazione.
Giancarlo Peris, la fiaccola e il Tripode
Il racconto dell’Ultimo Tedoforo
«Io, Oscar Barletta (il mio allenatore) e un signore dell’organizzazione stavamo alla fine del sottopassaggio che dallo Stadio dei Marmi porta allo Stadio Olimpico. Eravamo nascosti, a pochi metri dalla folla.
Era il 25 agosto 1960, il giorno dell’apertura dei XVII Giochi Olimpici dell’era moderna.
Indossavo un completo bianco, compresi calzini e scarpe, con una Lupa di Roma sul petto. Avevo la Fiaccola in mano.
Arrivò lo staffettista che mi precedeva e iniziammo a parlare. Nella Tribuna dei Grandi intervenne Giulio Andreotti. Parlò a lungo. Pensai: “Non si modera neanche oggi, davanti al mondo intero!”. Solo più tardi seppi che gli avevano detto che il penultimo staffettista non era arrivato, e doveva allungare il discorso.
Oscar accese una sigaretta usando la fiaccola.
Quando il discorso finì, mi sentii spinto nello Stadio. La mia preoccupazione era non inciampare, come accadde a Caroli quattro anni prima a Cortina.
Corsi 350 metri fino agli scalini della Tribuna Tevere. Feci un salto e pensai: “Gianca’, sei matto! Potevi cadere davanti a milioni di persone”.
Gli scalini erano 92, ma io abitavo al sesto piano e ne facevo 169 ogni giorno.
Arrivato sul podio, le istruzioni erano: fermo, fiaccola alzata verso Monte Mario, poi girarsi e accendere il Tripode.
Il Tripode aveva una fiammella-spia, che un addetto avrebbe ravvivato al mio avvicinamento.
Ma appena mi fermai, sentii il rombo del fuoco che si scatenava. Allungai istintivamente la fiaccola verso il Tripode, evitando la catastrofe.
Anche alle prove era successo lo stesso. Avevo chiesto all’addetto di aspettare qualche secondo. Ma quel giorno l’addetto era un sostituto e gli avevano dato istruzioni diverse.»
Enzo Vittorioso e il Tripode perduto
Il ritrovamento del simbolo olimpico
«Ero Segretario della Federazione Nuoto e durante i lavori per i XVI Campionati Europei (22-27 agosto 1983) stavamo installando nuovi impianti luce sulla Tribuna Monte Mario dello Stadio del Nuoto.
Un operaio segnalò il ritrovamento di materiali strani in una intercapedine murata.
Con grande sorpresa mi trovai davanti il Tripode dei XVII Giochi, ancora provvisto dei tubi di alimentazione del gas.
Chiesi al Settore Impianti del CONI di predisporre una base in cemento ai piedi del pendio erboso che separa lo Stadio dalla Piscina Coperta.
Chiesi anche a Donato Martucci un suggerimento per una targa: mi disse di inserire semplicemente la data dei Giochi.
Ricordo che il braciere era privo dei supporti e appoggiato a un muro. Procedemmo quindi al restauro, ripristinando i tre sostegni tubolari, simili agli originali.»
di Ruggero Alcanterini – adattamento SEO dell’articolo
