Il Meyer, Azienda Ospedaliera Universitaria IRCSS, ha inaugurato una nuova era nel trattamento del diabete di tipo 1 con la somministrazione di un anticorpo monoclonale. Quest’ultimo permette di ritardare l’insorgenza della patologia. Il trattamento, approvato dalla Direzione sanitaria e autorizzato dal Comitato etico, ha coinvolto un team multiprofessionale, ha interessato un paziente di 13 anni. I sanitari lo hanno sottoposto a una infusione endovenosa di teplizumab per 14 giorni, effettuando un monitoraggio clinico quotidiano anche attraverso esami di laboratorio. Non si sono verificate reazioni avverse impreviste, se non una transitoria linfopenia e una eruzione cutanea che si sono risolte senza necessità di trattamento alcuno. Superato il periodo di osservazione, ha fatto ritorno a casa.

Il ragazzo è stato assistito dalla dottoressa Sonia Toni, che per quarant’anni ha lavorato presso la Diabetologia del Meyer. Ed anche dal dottor Lorenzo Lenzi, responsabile facente funzione del Centro e dal team della diabetologia.

Gli anticorpi monoclonali ritardano l’insorgenza della malattia

L’uso degli anticorpi monoclonali ritarda l’insorgenza della malattia e rinvia la dipendenza da insulina a un’età in cui si è più consapevoli e capaci di usarla.

Ma in cosa consiste il nuovo trattamento? Dal 2022, l’Agenzia regolatoria americana del farmaco ha autorizzato l’impiego di teplizumab per proteggere le cellule beta e rallentare la progressione del diabete di tipo 1. Dalla fine del 2024, in attesa dell’autorizzazione dell’EMA e dell’AIFA, il farmaco è disponibile in Italia per uso compassionevole in pazienti selezionati. Agisce riducendo l’aggressività dei linfociti T verso le cellule beta che producono l’insulina, portando così a un ritardo nell’inizio della dipendenza dall’insulina.

Diabete di tipo 1, rallentare la distruzione delle cellule beta

Il diabete mellito di tipo 1 inizia mesi, anni, prima della comparsa dei sintomi tipici dell’esordio della malattia. Nel sangue, infatti, si ritrovano anticorpi che sono espressione dell’aggressione autoimmune che l’organismo attua verso le cellule del pancreas che producono insulina (cellule beta).

La storia naturale del diabete di tipo 1 riconosce varie tappe o meglio vari stadi che permettono di predirne l’esordio. Uno stadio importante è lo stadio 2 in cui alla positività di almeno due anticorpi si associa la presenza di una alterazione della glicemia (disglicemia). Questa alterazione, però, non rientra ancora nei criteri diagnostici.

Oggi c’è la possibilità di intervenire con un farmaco che agendo sul sistema immunitario rallenta la distruzione delle beta cellule e ritarda così l’esordio clinico del diabete.

Intercettare presto i soggetti che svilupperanno il diabete 1

Nel corso degli ultimi anni, attraverso studi clinici, si sta cercando di individuare molecole che somministrate all’esordio clinico possono interferire con la progressione del danno. E possono preservare la funzione beta cellulare estremamente importante per mantenere nel tempo un controllo adeguato della glicemia e proteggere il paziente dallo sviluppo delle complicanze.

Lo sforzo è intercettare più precocemente possibile i soggetti che andranno incontro a diabete tipo 1. Ciò per:

  • Preservare una maggiore massa beta cellulare.
  • Prevenire l’esordio in chetoacidosi.
  • Ridurre il più possibile il tempo di iperglicemia che precede la diagnosi.
  • Iniziare eventuali trattamenti immunomodulatori.

Le strategie possibili sono quelle dello screening che potrà essere effettuato sulla popolazione generale in determinate fasce di età, come previsto dalla legge 130 del 2023 e lo screening dei soggetti a rischio.

Una nuova era nel trattamento del diabete di tipo 1

Il trattamento in questione inaugura una nuova era, incentiva e rinforza le motivazioni ad effettuare lo screening e rappresenta un primo passo verso trattamenti più innovativi.

Le categorie di soggetti a maggior rischio per lo sviluppo del diabete sono quelli con malattie autoimmuni (celiachia, tiroidite, artrite idiopatica giovanile, psoriasi, vitiligine). Oppure con familiarità per diabete tipo 1 e per altre malattie autoimmuni e soggetti con iperglicemia occasionale. In queste persone, la ricerca dei marcatori di danno beta cellulare permette di effettuare una stadiazione.

Ritardare anche solo di pochi anni l’insulino-dipendenza e mantenere una seppur ridotta funzionalità beta cellulare residua è fondamentale. Soprattutto in età pediatrica, perché diminuire il tempo di esposizione all’iperglicemia, all’ipoglicemia e alla variabilità glicemica significa ridurre le complicanze croniche. Significa anche migliorare la qualità di vita e le performance fisiche e psicologiche di quel bambino.