Per anni, l’ictus è stato studiato quasi esclusivamente attraverso il prisma del danno diretto: la perdita immediata di tessuto cerebrale causata dall’interruzione del flusso sanguigno. Tuttavia, un recente studio condotto dai ricercatori della Simon Fraser University (SFU) di Vancouver (Canada), ha rivelato come il danno indiretto a strutture cerebrali apparentemente intatte possa contribuire in maniera significativa alla disabilità cronica post-ictus.

Pubblicato negli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze (PNAS), il documento offre una prospettiva inedita sul ruolo del talamo, un’importante struttura sottocorticale, nel perpetuare la disabilità a lungo termine nei sopravvissuti all’ictus

Il talamo: hub centrale del cervello

Talamo e ictus: una connessione inattesa che ridefinisce il recupero

Il talamo è spesso paragonato a una centralina di smistamento del cervello. Collocato in profondità, al centro del sistema nervoso, questa struttura gestisce e regola il flusso di informazioni tra diverse aree cerebrali. È coinvolto in funzioni fondamentali come la memoria, il linguaggio, l’attenzione e il movimento. Quando subisce danni, le conseguenze si propagano come onde sismiche in altre regioni del cervello, alterando una varietà di processi cognitivi e motori.

Fino ad oggi, l’attenzione della comunità scientifica si era concentrata prevalentemente sul danno ischemico diretto, trascurando la possibilità che il talamo potesse essere compromesso indirettamente, a seguito di un’alterazione della connettività cerebrale. La novità dello studio canadese sta proprio in questa intuizione: questa struttura, benché non colpita direttamente dall’ictus, può subire una sorta di “effetto domino” che compromette le sue funzioni vitali a distanza di mesi o anni dall’evento acuto.

L’evidenza: i dati dello studio

Il team di ricerca, guidato da Phillip Johnston e Randy McIntosh della SFU, ha analizzato l’attività cerebrale di diciotto pazienti sopravvissuti a un ictus cronico, confrontandola con quella di individui sani. Attraverso sofisticati modelli computazionali, i ricercatori hanno rilevato disfunzioni persistenti nel talamo dei pazienti colpiti da ictus, nonostante questa struttura non fosse stata direttamente lesionata.

L’analisi suggerisce che la gravità della disabilità post-ictus è correlata alla quantità di danno indiretto subito dal talamo. In altre parole, il livello di compromissione motoria e cognitiva dipende in parte da quanto il talamo sia stato “sconnesso” dal resto del cervello a causa del deterioramento delle lunghe connessioni neuronali (gli assoni) che lo collegano alle altre aree cerebrali.

«I nostri risultati indicano che il danno indiretto al talamo rappresenta una componente cruciale e finora 

sottovalutata della disabilità post-ictus. La buona notizia è che, a differenza del tessuto cerebrale che 

muore irreversibilmente, il talamo conserva una certa integrità, offrendo speranza per nuovi trattamenti di recupero». A spiegarlo, il dottor Johnston.

Il talamo: vittima collaterale dell’ictus

Il danno indiretto al talamo avviene attraverso un processo noto come degenerazione trans-sinaptica. Quando un ictus colpisce altre regioni cerebrali, come la corteccia motoria o sensoriale, le connessioni (assoni) che collegano queste aree al talamo subiscono danni. Il segnale interrotto causa un progressivo deterioramento delle cellule talamiche, nonostante il flusso sanguigno nel talamo rimanga intatto.

Questo fenomeno ha effetti a catena. Con un talamo danneggiato, le funzioni che regolava – dal controllo motorio alla percezione sensoriale – si alterano anche nelle aree corticali sane, amplificando così la disabilità del paziente.

Verso nuove terapie

Il potenziale di questa scoperta è straordinario. Se il talamo, pur essendo compromesso, rimane strutturalmente intatto, si apre la possibilità di ripristinare la sua funzione attraverso interventi mirati. Tra le terapie in fase di studio vi sono:

Stimolazione cerebrale profonda (DBS): una tecnica già utilizzata per il trattamento del Parkinson, che potrebbe essere adattata per riattivare il talamo e ripristinare le sue funzioni;

Neuroplasticità indotta: programmi di riabilitazione che mirano a stimolare la riconnessione delle vie neuronali tra il talamo e le aree corticali;

Farmacologia innovativa: lo sviluppo di nuovi farmaci neuroprotettivi in grado di prevenire la degenerazione trans-sinaptica o di promuovere la rigenerazione neuronale.

«Questa ricerca non solo apre la porta a nuovi trattamenti, ma solleva anche interrogativi 

fondamentali sulla natura della disabilità post-ictus. Quanto del deficit funzionale che osserviamo è 

attribuibile alla lesione iniziale e quanto, invece, è il risultato del deterioramento secondario del talamo? 

Comprendere questa distinzione sarà cruciale per lo sviluppo di terapie efficaci», osserva McIntosh.

Guardare oltre: il futuro della ricerca

Il prossimo passo sarà quello di analizzare come il danno indiretto al talamo si sviluppa nelle prime ore e giorni dopo l’ictus. Questo potrebbe consentire ai medici di intervenire precocemente, prevenendo la degenerazione secondaria e limitando i danni futuri.

Lo studio, realizzato in collaborazione con il Rotman Research Institute dell’Università di Toronto, rappresenta un esempio di come la sinergia tra neuroscienze, neurotecnologie e intelligenza artificiale possa portare a scoperte in grado di cambiare il paradigma della cura dell’ictus.

Una nuova speranza per i sopravvissuti all’ictus

L’ictus è stato per lungo tempo considerato una condizione irreversibile, ma la ricerca della Simon Fraser University dimostra che non tutto è perduto. Il cervello conserva una straordinaria capacità di adattamento e recupero, anche anni dopo un evento acuto. Comprendere e trattare il danno indiretto al talamo potrebbe rappresentare una delle più grandi rivoluzioni nel campo della neuroriabilitazione, offrendo una nuova speranza a milioni di pazienti in tutto il mondo.