Il lavoro da remoto, durante la prima ondata della pandemia di Covid-19, ha permesso a molte persone di continuare a lavorare in sicurezza. Lavorare da casa, lo smartworking in altre parole, secondo un nuovo studio, ha avuto un impatto significativo sulla salute mentale di alcuni gruppi. In particolare donne, persone single e genitori con figli conviventi.

Lo studio analizza come il lavoro da remoto abbia influenzato il benessere psicologico dei lavoratori senior nei primi mesi della pandemia.

Condotto da economisti dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Padova e IFO Institute Monaco, il lavoro è apparso sulla rivista Journal of the Economics of Ageing.

Smartworking, gli effetti non sono stati uguali per tutti

Gli autori della ricerca hanno effettuato un confronto tra chi ha lavorato da casa e chi ha continuato a lavorare in presenza. È così emerso che si sono verificati con maggiore diffusione sintomi depressivi tra chi ha lavorato da remoto.

«Questo effetto negativo è risultato più marcato nelle regioni in cui il contagio era relativamente contenuto e dove le misure restrittive erano molto rigide». Ad affermarlo è Giacomo Pasini, professore di Econometria e direttore del Dipartimento di Economia a Ca’ Foscari. «Il senso di isolamento, le incertezze sul futuro lavorativo e le tensioni familiari possono aver contribuito a questo disagio».

Lo studio evidenzia, inoltre, che gli effetti del lavoro da casa non sono stati uguali per tutti. Le donne, i single e le persone con figli conviventi hanno mostrato un impatto psicologico più rilevante rispetto ad altri gruppi.

Un’analisi rigorosa basata su dati statistici europei

Per indagare i fenomeni in questione, i ricercatori si sono basati sui dati della Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe (SHARE). Questa raccoglie informazioni su individui con più di 50 anni in 27 Paesi europei.

L’analisi ha utilizzato metodi statistici avanzati per isolare l’effetto specifico del lavoro da remoto da altri fattori legati alla pandemia.

«Grazie a questo approccio, siamo riusciti a stimare in modo affidabile l’impatto del lavoro da casa sui sintomi depressivi. Lo abbiamo fatto tenendo conto sia delle caratteristiche individuali sia della diversa intensità della pandemia e delle misure restrittive nei vari territori». Sono le parole di Marco Bertoni, professore di Economia all’Università di Padova e coautore dello studio.

Il lavoro da remoto non è uguale per tutti: serve flessibilità

Con la diffusione dei modelli di lavoro ibridi e da remoto anche nel post-pandemia, i risultati dello studio pongono importanti riflessioni sulla progettazione delle politiche aziendali.

Secondo i ricercatori, se il lavoro da casa resterà una pratica comune, è fondamentale riconoscere che non tutti lo vivono allo stesso modo.

Imporre limiti rigidi o regole uguali per tutti sui giorni di lavoro da remoto rischia di non tenere conto delle esigenze reali delle persone.

Al contrario, lo studio suggerisce la necessità di politiche flessibili, capaci di adattarsi alle diverse condizioni familiari e demografiche dei lavoratori.

I risultati contribuiscono al dibattito su come rendere il lavoro da remoto sostenibile, produttivo e attento alle persone, senza trascurare il loro benessere psicologico.

Fonte: Università di Padova