Un recente studio condotto presso l’Istituto di Genetica Molecolare “Luigi Luca Cavalli-Sforza” del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) a Pavia ha portato importanti novità sulla comprensione dei processi molecolari che causano l’accumulo di danni al DNA nelle cellule coinvolte nella Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La SLA è una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, sia centrali che periferici, causando perdita di controllo muscolare. I sintomi principali includono rigidità, spasmi, debolezza progressiva, difficoltà nel parlare, deglutire e infine respirare.

Colpisce circa 2-3 persone ogni 100.000 all’anno, con maggiore incidenza tra gli uomini. La forma più comune è sporadica (90-95% dei casi), mentre quella familiare rappresenta il 5-10%, spesso legata a mutazioni genetiche.

L’esordio avviene di solito attorno ai 60 anni, ma nei casi ereditari può iniziare prima. La diagnosi è clinica, supportata da esami per escludere altre patologie. La SLA non ha cura: il farmaco riluzolo può rallentare la progressione, mentre la ventilazione artificiale può migliorare qualità e durata della vita.

L’aspettativa di vita media è di 3-4 anni dalla diagnosi, ma circa il 10% dei pazienti sopravvive oltre i 10 anni. Il caso di Stephen Hawking è noto per la sua lunga sopravvivenza (55 anni).

Il termine “amiotrofica” indica la perdita di nutrimento muscolare; “laterale” fa riferimento alle aree del midollo coinvolte; “sclerosi” alle cicatrici create.

Nota anche come “malattia di Lou Gehrig” o “di Charcot”, la SLA è stata descritta per la prima volta nel XIX secolo. Oltre a colpire calciatori, è stata osservata in alcune aree con alta incidenza, come Guam.

Il trattamento include anche edaravone, approvato in Italia nel 2018 per pazienti selezionati. Studi continuano per comprenderne meglio le cause e sviluppare terapie più efficaci.

Le ricerche coordinate da un gruppo interdisciplinare di esperti provenienti dal CNR, dall’IFOM di Milano, dall’Istituto Mondino di Pavia e dalle università romane Sapienza e Tor Vergata

Il progetto, sostenuto dalla Fondazione AriSLA, ha approfondito il ruolo di specifiche proteine, FUS e TDP-43, note per accumularsi anormalmente nei pazienti SLA. Questi aggregati proteici impediscono alle cellule di riconoscere e riparare il danno al DNA, bloccando la cosiddetta “DNA Damage Response”, il meccanismo che normalmente protegge il genoma dagli stress quotidiani. L’incapacità di riparare efficacemente il DNA porta così a un rapido deterioramento della funzione cellulare e contribuisce alla progressione della malattia.

La coordinatrice dello studio, la ricercatrice Sofia Francia del CNR-IGM, da una delle fonti, spiega: “In lavori precedenti avevamo già dimostrato che l’accumulo anomalo di FUS e TDP-43 interferisce con la segnalazione e riparazione del DNA. Ora siamo riusciti a identificare i principali fattori coinvolti e, partendo da queste scoperte, abbiamo testato a livello cellulare un farmaco già approvato per uso antibatterico, che ha mostrato anche effetti antitumorali. I risultati sono incoraggianti e rappresentano un passo avanti verso possibili nuove terapie.”

Eziologia sconosciuta probabilmente multifattoriale

Le ipotesi principali includono un danno eccitotossico da glutammato e uno ossidativo. Nel 1993 si scoprì che mutazioni nel gene SOD1, coinvolto nella neutralizzazione dei radicali liberi, sono responsabili di alcuni casi familiari. Tuttavia, topi privi di SOD1 non sviluppano SLA, suggerendo che la mutazione SOD1 agisca con meccanismi alternativi. L’aggregazione di proteine mal ripiegate è una caratteristica comune.

Nel 2010 la scoperta relativa alla mutazione del gene C9ORF72 pubblicata su Pubmed. Questa spiegherebbe circa il 40% dei casi familiari. Altri studi hanno evidenziato il ruolo del glutammato, suggerendo una sua tossicità in eccesso e una possibile disfunzione nella sua ricaptazione. ipotizzati anche meccanismi autoimmuni. Associati alla malattia anche anomalie nella proteina TDP-43 e deficit dell’enzima PPIA.

Alcuni studi suggeriscono una relazione tra SLA ed esposizione a pesticidi.

Ciò che emerge chiaramente è l’urgenza di un approccio umano e scientifico insieme: non basta spiegare i meccanismi biologici, bisogna anche ascoltare le storie di chi convive con la malattia ogni giorno. Ogni scoperta, ogni ipotesi confermata o smentita, ha un impatto reale su vite concrete.

Per questo la ricerca, più che una corsa alla soluzione, è un percorso di responsabilità condivisa — tra scienza, medicina e società. E questo approccio andrebbe vale per tutte le patologie.