Un recente studio pubblicato su “Nature Communications” individua un particolare tipo di anticorpi che migliora la funzione di una proteina coinvolta nella malattia di Parkinson.
La ricerca dal titolo “Developing nanobodies as allosteric molecular chaperones of glucocerebrosidase function” è stata condotta da un team di ricerca internazionale. A coordinare i lavori è stata l’Università di Padova insieme al VIB-VUB Center for Structural Biology di Bruxelles.
La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune e affligge circa 10 milioni di persone nel mondo.
«Uno dei fattori che possono portare alla comparsa di questa malattia è infatti la perdita di funzione dell’enzima glucocerebrosidasi». Così Nicoletta Plotegher, docente del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e corresponding author dell’articolo. «Quando questo avviene, le cellule cerebrali perdono a poco a poco la loro normale attività. Questi speciali anticorpi, chiamati nanobodies, potrebbero invertire questo meccanismo ristabilendo la normale attività della glucocerebrosidasi e potenzialmente il normale metabolismo cellulare».
Malattia di Parkinson, non esiste ancora una cura
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È molto probabile che i malati di Parkinson aumenteranno nel tempo a causa del generale invecchiamento della popolazione e, sfortunatamente, non esiste ad oggi una cura.
I sintomi iniziali della malattia sono tremore e problemi nei movimenti che peggiorano gradualmente, tanto che i pazienti iniziano a mostrare rigidità, lentezza, problemi di equilibrio. Negli stadi più avanzati della malattia, anche demenza.
Le esatte cause della malattia di Parkinson sono ancora poco chiare e molto probabilmente è il risultato di un mix tra fattori genetici e fattori ambientali.
Uno dei più importanti fattori di rischio nello sviluppo della malattia di Parkinson è il malfunzionamento di un enzima chiamato glucocerebrosidasi. Questo è responsabile della degradazione di alcune classi di lipidi nei lisosomi delle cellule.
Mutazioni nel gene che codifica per la glucocerebrosidasi destabilizzano o riducono l’attività dell’enzima. Causando, così, l’accumulo di un materiale intracellulare non digerito che ha come conseguenza un danneggiamento delle funzioni cellulari di base.
Come ripristinare la funzione della glucocerebrosidasi
Un modo per ripristinare la funzione della glucocerebrosidasi è di stabilizzarla o attivarla utilizzando i cosiddetti “chaperoni molecolari”. «Questi – continua Nicoletta Plotegher – sono delle molecole in grado di legare la
Glucocerebrosidasi. Tuttavia, la maggior parte degli chaperoni che esistono legano il sito attivo dell’enzima, bloccando almeno in parte la sua attività, ciò limita enormemente la loro efficacia. Noi abbiamo sviluppato un approccio nuovo per migliorare la funzione della glucocerebrosidasi, utilizzando dei “nanobodies”, che sono piccoli frammenti di speciali anticorpi prodotti dai camelidi. Più precisamente, grazie a un finanziamento della Fondazione Michael J. Fox, abbiamo identificato nanobodies in grado di stabilizzare o attivare la glucocerebrosidasi. Legandosi, cioè, a regioni dell’enzima lontane dal sito attivo».
Nanobodies e cellule del cervello danneggiate, una sfida aperta
Il nuovo meccanismo messo a punto dagli autori dello studio permette di migliorare la funzione della glucocerebrosidasi con un innovativo metodo. Hanno, infatti, scoperto che alcuni di questi nanobodies possono migliorare l’attività della glucocerebrosidasi in maniera significativa in modelli cellulari. E anche migliorare la funzione di uno dei mutanti della glucocerebrosidasi più comunemente associati alla malattia di Parkinson.
«I risultati – dichiara Chiara Sinisgalli, prima autrice dell’articolo – sono ancora preliminari, ma ci permettono di immaginare nuove terapie per i pazienti affetti da Parkinson. Per trasformare queste scoperte in strategie innovative per trattare la malattia di Parkinson dovremo continuare i nostri studi. In particolar modo volti a sviluppare nuovi metodi per far arrivare questi nanobodies nelle cellule del cervello danneggiate», conclude l’esperta.
Fonte: Università di Padova