Una ricerca italiana ha rilevato l’entità della diffusione delle infezioni fungine invasive nei reparti di terapia intensiva e il loro impatto sui pazienti ricoverati.

Pubblicato sulla rivista Mycoses, lo studio osservazionale retrospettivo è stato condotto su dati amministrativi relativi al periodo 2012-2023. Ha dimostrato che in Italia candidosi, aspergillosi e pneumocistosi sono le infezioni più diffuse fra i pazienti ricoverati in terapia intensiva. I dati sono in accordo con quelli europei.

Le infezioni colpiscono in particolare i pazienti di sesso maschile intorno ai 68 anni. Tra le condizioni che mettono più a rischio di infezione ci sono ipertensione, trattamento con antibiotici sistemici, tumore, diabete o malattia cardiovascolare.

Sottovalutate le infezioni fungine invasive

L’infezione fungina sembra allungare il tempo di ospedalizzazione e concorrere al rischio di morte. Tra i dati raccolti, quelli relativi al periodo Covid testimoniano la situazione durante la pandemia (2020-2022). Circa un terzo dei pazienti con Covid in terapia intensiva ha sviluppato una sovrainfezione da Aspergillus (CAPA), allungando i tempi di guarigione e aumentando il rischio di morte.

Ciò che emerge dallo studio è la generale sottovalutazione delle Infezioni Fungine Invasive e il loro scarso monitoraggio. Sottovalutazione che le rende una vera e propria emergenza di sanità pubblica. Una conclusione condivisa anche dall’OMS, che sottolinea la carenza sia di ricerca sia dello sviluppo di soluzioni terapeutiche adeguate per le forme più critiche. Tra queste Cryptococcus neoformans, Aspergillus fumigatus, Candida albicans e Candida auris, su cui è indispensabile maggiore sorveglianza e intervento.

Emergono problematiche di resistenza ai farmaci

Le infezioni fungine non costituiscono solo un problema dei pazienti gravemente immunodepressi come classicamente considerate. Ma sono anche difficili da diagnosticare sia dal punto di vista clinico che microbiologico.

«L’armamentario terapeutico a disposizione è piuttosto ridotto e stanno emergendo importanti problematiche di resistenza ai farmaci più comunemente usati». Così Pier Luigi Viale dell’Università di Bologna Sant’Orsola Malpighi. «La cultura medica su tale tematica è ancora piuttosto scarsa. Nei paesi a risorse economiche limitate, le possibilità di accedere a diagnosi e terapie avanzate sono minime. Questo perché le infezioni fungine invasive sono molto costose. I dati dello studio potrebbero avere un forte impatto sul sistema sanità. Da esso emerge come il problema infezioni fungine invasive non sia limitato alle grandi organizzazioni sanitarie. La cultura specifica – aggiunge Viale – deve essere parcellizzata a tutti i livelli ed è necessario investire in cultura ed in strumenti diagnostici».

Fondamentale fare investimenti per fronteggiare il problema

Ogni ospedale deve avere la possibilità di fare diagnosi. «O direttamente – prosegue Viale – o riferendosi a centri di riferimento, in un contesto organizzativo che dia a tutti la possibilità di accedere agli strumenti diagnostici. Ma anche alla consulenza infettivologica ed alle risorse terapeutiche migliori».

È, dunque, indispensabile, migliorare la diagnosi microbiologica e renderla agibile anche al di fuori dei centri di riferimento.

«Al momento – conclude l’espertocombattiamo questo problema con tre classi di farmaci (azoli, echinocandine e polieni) più un analogo proteico di indicazioni limitate (flucitosina). È un numero veramente modesto se comparato alle risorse anti-batteriche. Vi è una ampia pipeline di farmaci in sviluppo, che si spera di avere a disposizione nel prossimo quinquennio. Sempre se lo sviluppo clinico procederà con la celerità con cui tali infezioni stanno diventando un problema di sanità pubblica. Fondamentale fare investimenti».