Le nostre orecchie sembrano immobili, ma il nostro cervello non ha mai smesso di provare a muoverle. I muscoli un tempo usati per orientarle verso i suoni si attivano ancora, senza successo. Un residuo evolutivo che ci collega ai nostri antenati… e forse anche ai cani. Comprendere meglio questi segnali potrebbe aiutare a perfezionare gli apparecchi acustici o le interfacce uomo-macchina basate sull’udito

L’illusione del movimento: perché le nostre orecchie cercano ancora di girarsi?

Le nostre orecchie sembrano immobili, ma il nostro cervello non ha mai smesso di provare a muoverle

Un recente studio condotto da ricercatori dell’Università del Saarland, in collaborazione con il produttore di apparecchi acustici WS Audiology e l’Università del Missouri, ha rivelato che i muscoli delle nostre orecchie non sono del tutto inattivi. Si attivano in modo inconscio quando cerchiamo di concentrarci su un suono specifico, come se il nostro corpo stesse ancora tentando di orientarle verso la fonte del rumore.

Ma se questi movimenti sono impercettibili, cosa significa? E perché il nostro cervello continua a inviare questi segnali, nonostante milioni di anni di evoluzione?

L’antica funzione delle nostre orecchie: un’eredità perduta

Tutti i mammiferi possiedono muscoli specializzati che consentono di ruotare le orecchie in direzione di un suono, migliorando la loro capacità di localizzarlo e di reagire ai pericoli o alle opportunità. I nostri antenati primati, decine di milioni di anni fa, erano dotati della stessa abilità.

Poi, circa 25 milioni di anni fa, l’evoluzione prese un’altra direzione. Quando le scimmie antropomorfe e i primati del Vecchio Mondo, come babbuini e colobi, iniziarono a distinguersi, qualcosa cambiò. La nostra specie perse la capacità di muovere attivamente le orecchie, affidandosi invece ai movimenti del collo e della testa per localizzare i suoni.

Il motivo? Probabilmente un cambio nell’ambiente e nello stile di vita. Mentre gli animali predatori avevano bisogno di orecchie mobili per captare anche il più piccolo fruscio nella vegetazione, i nostri antenati iniziarono a dipendere più dalla vista che dall’udito per sopravvivere.

L’esperimento: orecchie in ascolto senza muoversi

Per capire fino a che punto il nostro cervello continua a cercare di attivare questi muscoli “dormienti”, il team di ricercatori ha condotto un esperimento su 20 volontari di madrelingua tedesca con un udito normale e senza disturbi neurologici o cognitivi.

Ai partecipanti sono stati applicati elettrodi EMG (elettromiografici) sulla testa per misurare i segnali elettrici dei muscoli auricolari. Hanno ascoltato estratti di audiolibri, mentre in sottofondo veniva trasmesso un podcast distraente. Gli angoli di provenienza del suono e la difficoltà dei test sono stati modificati per creare scenari di ascolto più o meno complessi. Dopo l’ascolto, ai partecipanti veniva chiesto di valutare quanto avessero seguito l’audiolibro, rispondendo a domande sui contenuti.

I risultati: il cervello non dimentica

L’analisi dei dati ha rivelato che, nei momenti di ascolto più impegnativo, i muscoli auricolari si attivavano in modo significativo, specialmente il muscolo auricolare superiore e posteriore.

Questo fenomeno ricorda il comportamento di molti animali. Proprio come un cane ruota le orecchie verso un rumore sospetto, il nostro cervello tenta ancora di “girarle”, seppur senza successo.

Ma a cosa serve? un residuo evolutivo senza funzione?

Se le nostre orecchie non si muovono più in modo visibile, ha ancora senso che il nostro cervello invii questi segnali ai muscoli auricolari?

Secondo il neuroscienziato Andreas Schröer, autore principale dello studio, questi movimenti impercettibili potrebbero essere un residuo evolutivo, un tentativo inconscio di migliorare l’ascolto o una funzione utile per lo sviluppo di tecnologie uditive. Il nostro cervello non ha mai “disattivato” del tutto questo circuito neurale e, sebbene le nostre orecchie non si muovano più, la loro forma e posizione influenzano comunque la percezione del suono. Anche un minimo cambiamento nel tessuto circostante potrebbe alterare la ricezione del suono.

Comprendere meglio questi segnali potrebbe aiutare a perfezionare gli apparecchi acustici o le interfacce uomo-macchina basate sull’udito. Schröer sottolinea che, per ora, l’effetto pratico di questi movimenti è trascurabile.

«Il nostro sistema auricolare cerca di fare il suo lavoro dopo 25 milioni di anni di inattività, ma non ci riesce più».

Tuttavia, il ricercatore spera di approfondire lo studio, specialmente per capire se questi movimenti auricolari possano ancora influenzare la capacità di ascolto nelle persone con problemi uditivi.