Disturbi alimentari e rischio malattia: quando si parla di disturbi alimentari, l’attenzione pubblica si concentra spesso sulle loro manifestazioni più evidenti: la perdita di peso, l’ossessione per il corpo, il rapporto conflittuale con il cibo. Meno visibile, ma non meno profondo, è l’impatto che queste condizioni esercitano sulla salute fisica nel corso del tempo. Un nuovo studio pubblicato su BMJ Medicine illumina con particolare chiarezza questa dimensione sommersa, mostrando come i rischi non riguardino soltanto la fase acuta della malattia ma si estendano ben oltre, accompagnando i pazienti per anni, talvolta per più di un decennio.
La ricerca, condotta nel Regno Unito su un ampio campione di popolazione, racconta una storia che va molto oltre le statistiche: è la storia di organismi indeboliti, di fragilità metaboliche che si manifestano lentamente, di complicazioni che emergono quando la malattia sembra ormai alle spalle. Ed è la storia di un sistema di cura che deve imparare a riconoscere la lunga ombra che i disturbi alimentari proiettano sulla salute globale delle persone.
Disturbi alimentari e rischio malattia: il rischio non si ferma dopo il recupero
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Il lavoro degli studiosi ha coinvolto oltre 24.700 persone inglesi con una diagnosi di disturbo alimentare, confrontate con circa 493.000 individui senza questa condizione ma con età e caratteristiche simili. Il quadro che emerge è netto: il primo anno dopo la diagnosi rappresenta un periodo di vulnerabilità particolarmente marcato, in cui aumentano in modo significativo i rischi per organi e sistemi diversi, dal fegato alle ossa, dal cuore alla salute metabolica.
Chi soffre di anoressia, bulimia o disturbo da alimentazione incontrollata ha mostrato un’incidenza più elevata di malattie del fegato, insufficienza renale, osteoporosi, diabete e insufficienza cardiaca. A questi si aggiunge un maggior rischio di depressione, autolesionismo e tentativi di suicidio, che confermano quanto la dimensione psicologica resti centrale anche quando i sintomi alimentari sembrano attenuarsi.
La ricerca, tuttavia, non si ferma al primo anno. Un aspetto che colpisce è la persistenza del rischio: a cinque e dieci anni dalla diagnosi, le persone con una storia di disturbi alimentari continuano a mostrare esiti di salute peggiori rispetto alla popolazione generale. I valori tendono a ridursi progressivamente, ma non tornano mai davvero ai livelli basali.
È una scoperta che cambia la prospettiva: il recupero clinico, quando arriva, non equivale a un azzeramento delle complicazioni. Il corpo, dopo anni di restrizioni, abbuffate, purghe o oscillazioni metaboliche, conserva un’impronta fisiologica che richiede tempo, attenzione e cure continuative.
Disturbi alimentari e rischio malattia: componente femminile predominante
Il campione analizzato è composto per l’89 per cento da ragazze e donne, a conferma di una tendenza nota da decenni. La maggiore prevalenza femminile nei disturbi alimentari ha radici biologiche, sociali e culturali, e influenza anche la tipologia delle diagnosi: il 15 per cento dei casi riguardava l’anoressia nervosa, il 21 per cento la bulimia e il 5 per cento il disturbo da alimentazione incontrollata, mentre il restante 60 per cento è composto da condizioni non specificate ma comunque significative.
Nonostante questa distribuzione, lo studio ricorda che i disturbi alimentari non esistono solo al femminile. Anche gli uomini, quando colpiti, subiscono conseguenze fisiche e psicologiche importanti, spesso aggravate da un ritardo nella diagnosi dovuto allo stigma e alla scarsa percezione del problema.
Cosa succede nel corpo: le complicazioni più frequenti
Il gruppo di ricerca ha documentato un ventaglio di complicazioni che non riguarda un solo apparato ma l’intero organismo. Le malattie del fegato, ad esempio, derivano in parte da squilibri metabolici legati al digiuno prolungato o alle abbuffate ricorrenti. L’insufficienza renale può insorgere quando il corpo è esposto a vomito autoindotto, diuretici o disidratazione cronica. Le ossa perdono densità per via della carenza di nutrienti come calcio e vitamina D. Il metabolismo del glucosio può diventare instabile fino a favorire l’insorgenza del diabete.
Il cuore, già messo alla prova da anni di restrizioni caloriche o di sbalzi intensi nella regolazione elettrolitica, diventa particolarmente vulnerabile a insufficienza cardiaca, aritmie e altri disturbi circolatori.
Disturbi alimentari e rischio malattia: la salute mentale
Accanto alle complicazioni fisiche, lo studio sottolinea la persistenza di disturbi mentali che accompagnano i pazienti ben oltre la fase acuta della malattia. Depressione, ansia, comportamenti autolesionistici e rischio suicidario risultano più frequenti, soprattutto nel primo anno dalla diagnosi ma anche negli anni successivi. È un dato che invita alla prudenza: il miglioramento del comportamento alimentare non coincide automaticamente con un recupero psicologico completo.
Molte persone riferiscono un senso di vulnerabilità emotiva che può riemergere nei momenti di stress, di cambiamento o di pressione sociale. È proprio questa fragilità residua a rendere fondamentale un supporto continuativo, capace di intercettare segnali precoci di ricaduta o disagio psichico.
Un limite importante: la mancanza di informazioni sulla gravità dei disturbi
Gli autori riconoscono alcuni limiti della loro analisi. In particolare, non dispongono di informazioni dettagliate sulla gravità del disturbo alimentare di ciascun partecipante. È un elemento rilevante, perché è plausibile che i rischi fisici siano più elevati nelle forme più severe o prolungate nel tempo.
Inoltre, molte persone del campione con diagnosi di disturbo alimentare presentavano già prima della diagnosi altri problemi di salute, soprattutto psicologici. Queste condizioni preesistenti potrebbero avere un ruolo nel peggioramento degli esiti clinici e contribuire, almeno in parte, all’eccesso di rischio osservato nello studio.
Tuttavia, anche con queste cautele, il messaggio resta chiaro: i disturbi alimentari lasciano un’impronta duratura che la medicina deve imparare a monitorare nel lungo periodo.
Il ruolo dei medici di base: un anello ancora debole
Una delle conclusioni più rilevanti riguarda il ruolo dei medici di medicina generale. Secondo i ricercatori, esiste un “vuoto di cura”. Esso interessa proprio il periodo successivo alla fase acuta, quando i pazienti non sono più seguiti intensivamente dai servizi specialistici ma non sono neppure pronti per essere considerati completamente recuperati.
In questa terra di mezzo, molte persone rischiano di perdersi. Senza un monitoraggio regolare, senza controlli programmati per la salute delle ossa, del cuore, del fegato e senza un adeguato sostegno psicologico. È in questa fase che il medico di base dovrebbe intervenire con maggiore decisione. Coordinandosi con specialisti, nutrizionisti e psicoterapeuti per costruire un percorso realmente continuativo.
Disturbi alimentari e rischio malattia: verso una presa in carico più lunga e più completa
I dati dello studio invitano a una riflessione che riguarda l’intero sistema sanitario. È necessario superare l’idea che il disturbo alimentare sia una malattia confinata all’adolescenza o che si esaurisca quando il peso torna nella norma. La normalizzazione del corpo non coincide automaticamente con la guarigione del sistema biologico e psicologico.
Servono protocolli di monitoraggio a lungo termine che includano controlli cardiologici, esami metabolici, valutazioni della densità ossea e screening per la salute mentale. Serve una maggiore sensibilizzazione dei medici di famiglia e, più in generale, una cultura della continuità terapeutica che superi il modello “intensivo all’inizio, assente dopo”.
