Causata dai batteri del genere Borrelia e trasmessa da zecche, la malattia di Lyme può a volte evolvere in forme croniche difficili da trattare. Gli esperti ritengono che una delle ragioni alla base della persistenza dell’infezione risieda nella capacità di Borrelia di organizzarsi in strutture tridimensionali. Ovvero, una sorta di “pellicola protettiva” nota come biofilm. In sintesi, sono comunità di batteri immerse in una matrice formata da polisaccaridi, proteine e acidi nucleici. Tale matrice può limitare la penetrazione degli antibiotici e compromettere l’efficacia delle risposte immunitarie del corpo umano, favorendo così la sopravvivenza della popolazione batterica.

È quanto emerge da un nuovo studio coordinato dall’Istituto Dermatologico San Gallicano IRCCS di Roma, in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e l’Università di Lubiana.

La ricerca è stata finanziato dall’Associazione Lyme Italia e Coinfezioni e pubblicata su “Frontiers in Cellular and Infection. Microbiology-Veterinary and Zoonotic Infection”.

Malattia di Lyme, più diffusa nelle zone a clima temperato

La borreliosi di Lyme (LB) è la malattia trasmessa da zecche più diffusa nelle zone a clima temperato di tutto il mondo. Borrelia burgdorferi in Nord America e Borrelia afzelii e Borrelia garinii in Europa e Asia sono i principali agenti causali.

I sintomi clinici variano da manifestazioni cutanee localizzate (eritema migrante) a coinvolgimento sistemico, tra cui neuroborreliosi e artrite.

I trattamenti di prima linea efficaci per la LB in fase iniziale prevedono l’uso di antibiotici, come doxiciclina, amoxicillina, azitromicina, cefuroxima e ceftriaxone. Sebbene la terapia antibiotica standard sia efficace nella maggior parte dei casi di LB precoce, possono insorgere complicazioni nelle forme persistenti della malattia. Quelle, cioè, che non si risolvono dopo la somministrazione di antibiotici.

Nonostante un trattamento appropriato, diversi studi suggeriscono che oltre il 10-20% dei pazienti con LB trattati per eritema migrante continua a manifestare sintomi di affaticamento. Ed anche dolore muscoloscheletrico e deterioramento cognitivo.

Biofilm, strutture complesse che proteggono i batteri

Un crescente numero di prove indica il ruolo dei biofilm nella persistenza della malattia.

I biofilm sono comunità strutturate di cellule batteriche racchiuse in una matrice polimerica autoprodotta che aderisce a superfici biologiche o non biologiche. Queste strutture complesse proteggono i batteri dagli stress ambientali, tra cui le risposte immunitarie dell’ospite e gli agenti antimicrobici. Ciò può causare stati di infezione cronica più difficili da eradicare.

Comprendere le capacità di formazione di biofilm delle specie di Borrelia è essenziale per capire i motivi della persistenza della malattia. Ed anche per sviluppare approcci terapeutici più efficaci.

La matrice protettiva del biofilm impedisce la penetrazione degli antibiotici e facilita un microambiente favorevole alla sopravvivenza batterica e persino alla proliferazione sotto pressione antimicrobica. Di conseguenza, i pazienti affetti da LB persistente spesso soffrono di sofferenze prolungate a causa dell’inefficacia dei regimi di trattamento standard.

Borrelia, lo studio ha esaminato 12 ceppi batterici

Lo studio sulla Borrelia ha esaminato 12 ceppi batterici isolati da pazienti affetti da Lyme con manifestazioni cutanee (eritema migrante).  

I ricercatori hanno utilizzato tecniche avanzate di analisi genetica e test sugli antibiotici. Hanno, così, scoperto che, quando i batteri Borrelia afzelii e Borrelia garinii formano biofilm, i farmaci comunemente usati perdono molta della loro efficacia.

I principali agenti della malattia di Lyme in Europa sono proprio i batteri Borrelia afzelii e Borrelia garinii. I farmaci somministrati di solito sono ceftriaxone e doxiciclina.

«La formazione dei biofilm da parte di Borrelia contribuisce a rendere la malattia di Lyme persistente e difficile da trattare con le terapie tradizionali». Lo afferma Enea Gino Di Domenico, responsabile scientifico dello studio. «Questi risultati aiutano a capire perché certe infezioni siano così difficili da eliminare e aprono la strada allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche più mirate», aggiunge Giorgia Fabrizio, ricercatrice dell’Università Sapienza.