Da qualche tempo, le conquiste della ricerca scientifica stanno consentendo progressi insperati nella cura delle epatiti grazie a nuove terapie. I virus dell’epatite, in particolare la C e la Delta, sono da sempre nemici giurati della salute del fegato. Oggi, i nuovi farmaci, che per avere efficacia devono essere usati in tempo, lottano contro i virus epatici.
L’argomento è stato trattato a Firenze, nel corso del congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, SIMIT. Il filo conduttore del contrasto epidemiologico ai due sottotipi di epatite è indubbiamente il ruolo cruciale degli screening.
«L’epatite Delta è una malattia rara. Ciò perché si genera nei soggetti portatori del virus dell’epatite B che hanno una coinfezione o una superinfezione con il virus dell’epatite Delta. Si stima essere prevalente, a livello italiano, in circa il 7-8% di portatori di HBV», dice Maurizia Brunetto, direttore U. O. Epatologia, Azienda ospedaliero-universitaria, Pisa.
Danno epatico severo indotto dalla superinfezione
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L’epatite Delta è una malattia rara che colpisce un numero relativamente modesto di soggetti.
«Il problema, però, è che la coinfezione, ma soprattutto la superinfezione induce un danno epatico severo a rapida evoluzione», continua Brunetto. «Questo vuol dire che abbiamo soggetti con cirrosi e complicanze prima dei 50 anni. Quindi siamo dinanzi a una malattia davvero molto severa con un impatto sull’aspettativa di vita del paziente coinfetto molto drammatica».
Le linee guida europee non possono che essere stringenti. E suggeriscono, di rimando, a tutti i pazienti positivi all’epatite B di sottoporsi, almeno una volta nella loro vita, a un test. Questo per individuare gli anticorpi specifici per la Delta.
Bulevirtide, blocca l’ingresso del virus nel fegato
Dai dati di sorveglianza emerge che una percentuale di soggetti interessati non si sottopone a screening.
«Una percentuale variabile – ribadisce Brunetto – in Italia per fortuna non molto elevata ma comunque del 20-25%, dei soggetti interessati non viene sottoposta a screening. Questo significa che l’eventuale infezione non viene identificata. In altre nazioni europee la situazione è ben più grave». La fascia di popolazione più a rischio ha una media di 50-60 anni. Si tratta di una coda demografica dell’epidemia sviluppatasi in Italia a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Attualmente, ammette l’esperta, «più del 50% dei casi, almeno nella mia esperienza, riguarda stranieri che hanno un’età media di 35 anni. Il 70% di loro ha cirrosi».
Il risvolto positivo è che l’approccio terapeutico ha compiuto un balzo in avanti. Merito di una nuova molecola, la bulevirtide, in grado di bloccare l’ingresso del virus e la sua diffusione nel fegato.
Virus epatici: miglioramento clinico nei pazienti
La bulevirtide, arrivata prima in modalità compassionevole, successivamente è stata fornita dallo Stato. Un recente studio mostra risultati lusinghieri.
«È un farmaco molto innovativo», spiega ancora la specialista. «Dopo 6-12 mesi di trattamento in oltre il 70% dei pazienti trattati abbiamo visto una importante caduta dei livelli del virus, pari a 2 logaritmi. Ma soprattutto un abbattimento della transaminasi».
I risultati sono ancora più apprezzabili se si considera che si tratta di studi di pratica clinica condotti in pazienti con malattia in fase avanzata. Questi hanno dimostrato un miglioramento clinico della sintesi epatica, dei livelli delle piastrine. Un cambio di paradigma che risalta ancora di più se si considera l’opzione terapeutica d’elezione. L’interferone in presenza di cirrosi diventa molto difficile da dosare, lasciando dunque “orfani” di una cura.
Virus epatici: situazione in Italia e screening
«L’Italia è a buon punto», dichiara Loreta Kondili, ricercatrice del centro nazionale per la salute globale dell’Istituto Superiore di Sanità. «Possiamo dire che i risultati sono soddisfacenti, anche se in Italia sono 14 le Regioni che hanno attivato lo screening per la popolazione generale. Quasi 18 Regioni lo hanno fatto o lo stanno facendo per le popolazioni chiave».
Farà la differenza, dunque, insistere sul monitoraggio e sull’indagine prorogando il fondo oltre il 2023 ed estendendo lo screening all’intera popolazione. Attività da affiancare, secondo Kondili, a un’efficace azione di sensibilizzazione da parte delle Regioni verso i pazienti, ma anche nei confronti dei medici specialisti.