Dopo anni di dibattiti, ritardi e tentativi incompiuti, la riforma della medicina di famiglia e della pediatria di libera scelta è ormai prossima a diventare realtà. La riforma è stata elaborata dalle Regioni e condivisa con il Ministero della Salute. Intende colmare le lacune strutturali e normative che hanno reso l’assistenza territoriale sempre più fragile e inadeguata rispetto ai bisogni della popolazione.
L’attuale sistema convenzionale, fondato su accordi collettivi e su un’organizzazione spesso dispersiva, viene messo sotto accusa. La sua incapacità di integrarsi efficacemente con il resto del sistema sanitario, in particolare con le nuove strutture promosse dal PNRR come le Case della Comunità, è palese. Il cambiamento, quindi, non è solo tecnico o organizzativo, ma culturale. Si tratta di ripensare il ruolo stesso del medico di base e del pediatra all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.
Il superamento del modello convenzionale
Indice dei contenuti
Uno degli snodi centrali della riforma è la possibilità di scelta tra due modalità di rapporto con il sistema pubblico. Quella convenzionata, che sarà però radicalmente trasformata, e quella della dipendenza, finora mai realmente attuata sebbene prevista fin dalla legge istitutiva del SSN nel 1978.
La riforma mantiene il rapporto fiduciario tra medico e paziente. Ma lo inserisce in un contesto più strutturato, con obblighi di presenza e collaborazione all’interno delle Case della Comunità, un monte ore minimo garantito e l’uso sistematico delle tecnologie digitali.
I medici che decideranno di rimanere in convenzione dovranno comunque adeguarsi a parametri organizzativi più stringenti. Sottrarli alla sola contrattazione collettiva, potrà assicurare un’effettiva integrazione con i percorsi assistenziali regionali.
La scelta tra convenzione e dipendenza diventa quindi una questione non solo personale, ma anche professionale. Perché comporta un diverso grado di responsabilità, autonomia e inserimento nella rete dei servizi.
Convenzione e dipendenza: due modelli organizzativi a confronto
Per comprendere a fondo la portata della riforma in discussione, è fondamentale chiarire la differenza tra il modello della convenzione e quello della dipendenza nel rapporto tra medici e Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
I medici convenzionati, come i medici di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS), non sono dipendenti pubblici. Svolgono la loro attività in forma autonoma, pur operando all’interno del sistema sanitario, sulla base di Accordi Collettivi Nazionali che ne regolano diritti, doveri, orari, compensi e modalità operative.
Questo modello, pensato per garantire flessibilità e continuità assistenziale, ha però mostrato negli anni limiti crescenti. Soprattutto in termini di integrazione con gli altri servizi territoriali e ospedalieri, rigidità nei compiti assegnati e difficoltà nell’uso condiviso delle risorse e delle tecnologie.
Nel modello di dipendenza, invece, il medico è un dipendente del SSN, assunto attraverso concorso e inquadrato nei contratti della dirigenza medica, come accade per i medici ospedalieri. Questo comporta una maggiore uniformità nelle regole di ingaggio, l’obbligo di orari definiti e una collocazione più stabile e strutturata all’interno dell’organizzazione sanitaria. La dipendenza implica anche una maggiore responsabilità organizzativa. Implica inoltre la partecipazione diretta ai processi decisionali e clinici collettivi, con vincoli più forti ma anche più possibilità di sviluppo professionale integrato.
Cosa sono le Case della Comunità?
Le Case della Comunità sono uno dei pilastri della nuova assistenza territoriale disegnata dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Non si tratta semplicemente di ambulatori o poliambulatori, ma di strutture sanitarie multifunzionali che riuniscono sotto lo stesso tetto medici di medicina generale, pediatri, infermieri di famiglia, assistenti sociali, specialisti, psicologi e altri operatori. L’obiettivo è offrire un punto di riferimento stabile, accessibile e continuo per le cure primarie e la prevenzione, in grado di rispondere in modo coordinato e tempestivo ai bisogni di salute della popolazione, specialmente quella con cronicità, fragilità o problemi sociali complessi.
Le Case della Comunità rappresentano un superamento della frammentazione storica della medicina territoriale. Non più studi isolati e professionisti slegati tra loro, ma un lavoro di équipe che valorizza l’integrazione tra competenze diverse e consente la condivisione di strumenti informatici, cartelle cliniche digitali, percorsi di cura e protocolli. Inoltre, in queste strutture si promuove l’uso della telemedicina, si potenzia l’assistenza domiciliare e si sperimentano modelli di co-progettazione con il Terzo settore. È proprio in questo contesto che la riforma mira a inserire stabilmente i medici di base e i pediatri, indipendentemente dalla modalità contrattuale scelta. Questo per garantire ai cittadini un accesso semplice, continuativo e coordinato alla salute, vicino al territorio e alla comunità.
La specializzazione per la medicina generale
Altro cardine della riforma è l’introduzione di una specializzazione universitaria per le cure primarie, che sostituirà progressivamente l’attuale corso triennale regionale. Si tratta di un passaggio di enorme rilievo simbolico e pratico. La medicina di base, per troppo tempo considerata una scelta “residuale”, viene finalmente riconosciuta come disciplina specialistica a pieno titolo.
Questo cambiamento dovrebbe rendere più attrattiva la professione per i giovani medici. Garantirà una formazione più approfondita e favorire il reclutamento di personale più qualificato, in grado di affrontare la crescente complessità clinica e sociale dei pazienti.
Allo stesso tempo, la riforma prevede meccanismi di transizione per i professionisti già attivi, attraverso percorsi semplificati per il riconoscimento dei titoli e l’accesso alla dirigenza medica. In questo modo si cerca di evitare una rottura brusca, accompagnando l’evoluzione del sistema con strumenti di inclusione e valorizzazione dell’esperienza già maturata sul campo.
Un nuovo equilibrio tra Stato e Regioni
La riforma, pur nel suo impianto nazionale, lascia ampi margini di flessibilità alle Regioni, che potranno scegliere se avvalersi prevalentemente di personale dirigente o mantenere forme di accreditamento per gruppi di medici operanti in strutture pubbliche.
Questa possibilità consente una maggiore adattabilità alle diverse realtà territoriali, ma comporta anche la necessità di definire standard minimi comuni a livello nazionale. Questo per evitare disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dell’assistenza.
Il documento ribadisce infatti l’importanza di stabilire criteri uniformi per il fabbisogno di medici e pediatri, per la programmazione dei corsi di specializzazione e per la distribuzione delle risorse. L’obiettivo è quello di coniugare autonomia regionale e garanzia dei diritti, rendendo più efficiente la macchina organizzativa senza rinunciare all’equità del servizio sanitario.
Una riforma con implicazioni economiche e sociali
Ogni riforma strutturale comporta un impatto economico, e questa non fa eccezione. Il nuovo modello organizzativo, con l’introduzione della dirigenza, l’aumento delle ore di servizio e il potenziamento delle strutture territoriali, richiederà una copertura finanziaria adeguata.
Le Regioni chiedono che il Governo si impegni a garantire i fondi necessari. Questo sia per la fase transitoria sia per l’assetto definitivo, in modo da non gravare sui bilanci locali o compromettere l’erogazione dei servizi. Ma oltre ai costi immediati, la riforma ha anche una valenza strategica sul lungo periodo. Investire sulla medicina di prossimità significa prevenire ospedalizzazioni, migliorare la gestione delle cronicità, favorire la presa in carico precoce dei pazienti. In altre parole, si punta a costruire un sistema più sostenibile, non solo dal punto di vista finanziario, ma anche umano e relazionale.
Verso un nuovo patto di cura tra cittadini e sistema sanitario
In definitiva, questa riforma rappresenta un’occasione storica per ridefinire il patto di cura tra cittadini e sistema sanitario. In un’epoca segnata dall’invecchiamento della popolazione, dalla diffusione delle malattie croniche e dalla crescente domanda di assistenza domiciliare e territoriale, rafforzare la figura del medico di famiglia e del pediatra significa rafforzare le fondamenta stesse del welfare italiano.
Il successo della riforma dipenderà dalla capacità delle istituzioni di attuarla con coerenza. Ma anche dalla disponibilità dei professionisti ad accettare il cambiamento e a interpretarlo come un’opportunità di crescita. La medicina del territorio non può più essere considerata un anello debole. Deve diventare il primo presidio della salute pubblica, il luogo in cui la cura comincia, si sviluppa e si consolida ogni giorno, vicino alle persone e alle loro comunità.