Depressione

Episodi ripetuti di violenza provocano sul corpo femminile alterazioni comportamentali e neuronali. Lo ha dimostrato un team internazionale di ricerca guidato dall’Università di Padova.

Le violenze psicologiche e fisiche di un maschio sul corpo femminile provocano un’alterazione della funzionalità in alcune regioni del cervello. Ciò nel contesto di un modello animale sperimentale.

In particolare, le violenze provocano un deterioramento dell’ippocampo. È questa un’area coinvolta in modo cruciale nei processi cognitivi come la memoria, l’apprendimento di nuove informazioni. Ed anche nei meccanismi della navigazione, oltre che nella regolazione dell’umore e delle emozioni.

È quanto emerge da uno studio preclinico coordinato dall’Ateneo di Padova, in collaborazione con la Johns Hopkins University di Baltimora ed altre istituzioni nazionali ed internazionali. Studio effettuato nell’ambito del progetto europeo PINK (Marie Skłodowska-Curie Actions), pubblicato sulla rivista “iSCIENCE”.

La violenza incide sulla morte delle cellule neuronali

Lo studio ha evidenziato come, a seguito di attacchi violenti e reiterati, l’organismo femminile mostri una drastica riduzione della formazione di nuove cellule neuronali nell’ippocampo. E possibilmente in altre aree del cervello, accompagnata da un aumento della morte delle cellule neuronali.

Soggetti sperimentali sottoposti a violenza psicologica e fisica sviluppano nel tempo comportamenti di tipo ansioso-depressivo. A questi comportamenti è associata una drastica riduzione di uno dei sottotipi dei recettori degli estrogeni, ovvero i cosiddetti recettori beta. È quanto evidenziato da Jacopo Agrimi e colleghi, del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e primo autore della ricerca.

Esaminato lo stato della proteina BDNF

«Con l’aiuto di colleghi neuroscienziati del CNR (Marco Brondi e Claudia Lodovichi) abbiamo effettuato studi preclinici. E dimostrato l’effettiva esistenza di un nesso causale tra la mancanza di questo tipo di recettori per gli estrogeni e lo sviluppo di anomalie del comportamento». Così Jacopo Agrimi. «Abbiamo poi esaminato lo stato di una proteina chiamata brain-derived neurotrophic factor (BDNF). Questa è fondamentale per la crescita, lo sviluppo e il mantenimento della struttura e funzionalità delle cellule nervose adulte. Nell’essere umano, i livelli normali di BDNF sono essenziali per il controllo dell’umore, per mantenere le capacità cognitive, per reagire a diverse forme di stress. Non sorprendentemente, abbiamo riscontrato che mimare la violenza tra partner in modelli sperimentali animali porta ad una riduzione nell’ippocampo anche di questo fattore, il BDNF. Questa eventualità – conclude Agrimi – potrebbe spiegare ancor meglio perché donne vittime di violenza domestica possano sviluppare nel tempo gravi patologie psichiatriche e neurologiche».

Valutare le conseguenze della violenza domestica

Restano ancora da validare le evidenze ottenute nel modello sperimentale sull’essere umano e valutare le conseguenze “strutturali” a lungo termine della violenza domestica.

«Rimane da spiegare da un punto di vista meccanistico come questa forma di violenza reiterata aumenti nelle donne il rischio di contrarre varie forme di tumore. Ed anche malattie cardiovascolari e neurodegenerative». A dichiararlo Marco Dal Maschio e Nazareno Paolocci, ultimi autori dello studio.

L’Università di Padova è impegnata fortemente anche su questo fronte, in concerto con altre strutture all’avanguardia nel trattamento delle donne che hanno subito violenza. Tra questi, il centro antiviolenza dell’Ospedale Policlinico di Milano (SVSeD center, Service for Sexual and Domestic Violence.

Dagli USA una nuova prospettiva in funzione terapeutica

Lo studio apre una nuova luce e nuove prospettive per la comprensione delle conseguenze delle violenze sulle donne. Ciò considerato che ancora si disconoscono in parte le ripercussioni strutturali e funzionali che la violenza potrebbe esercitare sul cervello e su altri organi delle donne.

Una nuova prospettiva, anche in funzione terapeutica e a ulteriore fondamento della ricerca svolta nell’ateneo di Padova, è quella che viene dagli Stati Uniti. Qui, l’uso di sostanze stimolanti i recettori beta degli estrogeni è stato approvato per trattare i disturbi dell’umore in donne all’inizio della menopausa.

Fonte: Università di Padova