L’idea comune che lo sfogo aiuti a liberarci della rabbia, è messa in discussione da una nuova ricerca condotta dalla Ohio State University. Secondo la revisione meta-analitica di 154 studi sulla gestione della rabbia, sfogarsi potrebbe addirittura peggiorare la situazione

Quando sfogarsi peggiora la rabbia

Le rage room sono ambienti in cui pagano per distruggere oggetti come mezzo di sfogo emotivo

Tra le varie strategie di gestione della rabbia, lo “sfogo” è da tempo considerato un toccasana per calmare le acque turbolente dell’ira. In questo senso, c’è chi preferisce smaltirla attraverso l’attività fisica, lo sport o altre distrazioni. Ma fino a che punto tali pratiche offrono un reale sollievo, se non si affrontano le cause sottostanti dell’ira?

Secondo Brad Bushman, uno stimato scienziato della comunicazione, l’atto di “sfogarsi” può facilmente sfociare nella “ruminazione”. Paliamo cioè di un loop infinito di pensieri ossessivi e preoccupazioni che non solo mantengono viva l’ira, ma potrebbero anche esacerbare il nostro malessere emotivo.

«Penso che sia davvero importante sfatare il mito secondo cui, se sei arrabbiato, dovresti sfogarti», esordisce Bushman. «Sfogare la rabbia potrebbe sembrare una buona idea, ma non c’è uno straccio di prova scientifica a sostegno della teoria della catarsi».

Quale soluzione prospettano gli studiosi? Partiamo dallo studio condotto dal team.

Psicologia comportamentale all’azione

Il team ha strutturato lo studio basandosi sulla teoria dei due fattori di Schachter-Singer.

Questo è un modello che delinea l’emozione come un fenomeno complesso caratterizzato da componenti fisiologiche e cognitive.

Così, mentre le ricerche precedenti si erano concentrate principalmente sull’aspetto cognitivo, analizzando come la terapia cognitivo-comportamentale potesse modulare i significati mentali sottostanti alla rabbia, lo studio si è spinto oltre. Ha esplorato il ruolo dell’eccitazione fisiologica nel processo di controllo emotivo.

Questa prospettiva ha permesso di analizzare in modo esaustivo i meccanismi sottostanti alla rabbia e alle strategie più efficaci per affrontarla.

Utile precisare che la ricerca ha tratto ispirazione dalla crescente popolarità delle rage room. Cosa sono? Ambienti in cui le persone pagano per distruggere oggetti come mezzo di sfogo emotivo. Ma veniamo all’indagine.

Sfogo o rilassamento?

Pratiche come la meditazione possono aiutare a elaborare la rabbia

Gli esperti hanno scrutato una vasta gamma di attività, dalle più intense come la boxe e il ciclismo, alle pratiche più serene come la meditazione e lo yoga.

Risultato? E’ emerso che per controllare la rabbia, è fondamentale ridurre l’eccitazione fisiologica associata ad essa o all’attività fisica che potrebbe catalizzarla.

L’analisi ha rivelato ad esempio che la maggior parte delle attività che aumentano l’eccitazione non contribuiscono a ridurre la rabbia e, in alcuni casi, possono persino esacerbare la situazione, come nel caso del jogging.

«Per ridurre la rabbia, è meglio impegnarsi in attività che diminuiscano i livelli di eccitazione», afferma Bushman.

Gli sport di squadra e altre attività ludiche sembrano invece essere più efficaci nel ridurre l’eccitazione fisiologica.

La prova del nove

Sophie Kjærvik, prima autrice dello studio, espone la motivazione alla base della ricerca. «Volevamo dimostrare che ridurre l’eccitazione, e in particolare il suo aspetto fisiologico, è fondamentale nel processo di gestione della rabbia».

Veniamo quindi ai risultati dello studio.

Ciò che è emerso con chiarezza è che le attività che favoriscono il rilassamento muscolare, la respirazione consapevole e il recupero della calma interiore risultano essere particolarmente efficaci nel mitigare la rabbia, sia in ambienti controllati come il laboratorio, sia nelle situazioni quotidiane.

Inoltre, gli autori sottolineano che le terapie cognitive standard potrebbero non essere adatte a tutti i tipi di cervello, evidenziando così la necessità di un approccio più diversificato e adattabile nella gestione delle emozioni intense.

«È stato davvero interessante vedere che il rilassamento muscolare progressivo e il rilassamento in generale potrebbero essere altrettanto efficaci di approcci come la consapevolezza e la meditazione», afferma Kjærvik. «E lo yoga, che può essere più eccitante della meditazione e della consapevolezza, è ancora un modo per calmarsi e concentrarsi sul respiro che ha l’effetto simile nel ridurre la rabbia».

Spegnere il fuoco dall’interno

Piuttosto che cercare di liberarsi della rabbia attraverso uno sfogo emotivo, i ricercatori suggeriscono di spegnere il fuoco dall’interno.

«Viviamo in una società caratterizzata da un elevato livello di stress, e abbiamo bisogno di strumenti per affrontarlo», afferma Kjærvik. «Dimostrare che le stesse strategie efficaci per gestire lo stress possono essere applicate anche alla rabbia è una scoperta significativa».

La riflessione

Mentre l’espressione delle emozioni può offrire un immediato sollievo, la riflessione va oltre, porta cioè alla comprensione delle radici della rabbia e alla sua gestione consapevole.

La riflessione è, quindi, il fulcro di una vera e propria metamorfosi emotiva. Attraverso di essa, ci avviciniamo ai motivi profondi della nostra ira. In aggiunta, ci consente di elaborare i conflitti sottostanti e trovare modi costruttivi per affrontarli.

Questo processo di autoanalisi non solo ci consente di dare un nome alla nostra rabbia, ma ci offre anche l’opportunità di esplorare soluzioni alternative e di costruire strategie di coping più efficaci.

Sebbene ulteriori studi siano necessari per approfondire questi risultati, i ricercatori concordano che le tecniche di rilassamento, anche le più semplici come prendersi una pausa o contare fino a dieci, rappresentino le opzioni migliori per domare l’ira.

«Non è necessario rivolgersi necessariamente a un terapeuta cognitivo-comportamentale per affrontare la rabbia. Esistono risorse accessibili, come app sul telefono o video su YouTube, che possono offrire assistenza immediata». Così conclude Kjærvik.

Lo studio è stato pubblicato su Clinical Psychology Review.