Malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, insieme con il diabete di tipo 2, condividono una caratteristica fondamentale: l’aggregazione proteica.
Il fenomeno si verifica quando alcune proteine vanno incontro a un processo di errato ripiegamento, o misfolding, della catena polipeptidica e costituisce l’eziologia di fondo per numerosi disturbi.
I ricercatori della Purdue University, hanno creato una serie di composti, attualmente in attesa di brevetto, che dimostrano la capacità di inibire l’aggregazione proteica associata alle tre patologie
Aggregazione proteica: un nuovo promettente studio
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Autrice principale dello studio sull’aggregazione proteica, Jessica Sonia Fortin, assistente professore di scienze mediche di base, fisiologia e farmacologia del College of Veterinary Medicine e membro del Purdue Institute for Drug Discovery, (West Lafayette, Indiana).
Il suo team ci è concentrato sulla preparazione di nuovi composti di piccole molecole e sulla loro validazione attraverso studi in vitro.
Obiettivo?
Inibire l’aggregazione proteica coinvolta in diverse patologie. Un passo avanti significativo che potrebbe aprire la strada a trattamenti rivoluzionari per queste affezioni debilitanti. Prima di addentrarci nell’argomento, diamo un’occhiata ai numeri.
Incidenza delle tre patologie
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel mondo si stimano oltre 8,5 milioni di malati di Parkinson, mentre oltre 55 milioni di persone convivono con l’Alzheimer.
Quanto al diabete di tipo 2, ogni anno muoiono 1 milione 500mila persone a causa del diabete. Nello specifico:
- il 9% degli adulti è affetto da diabete;
- il 90% delle persone diabetiche è affetto da diabete di tipo 2.
Sempre a livello mondiale, inoltre:
- il numero di persone affette da diabete è passato da 108 milioni a 420 milioni negli ultimi trent’anni.
Ruolo dell’aggregazione proteica nelle malattie neurodegenerative e metaboliche
L’Alzheimer e il Parkinson, affezioni neurologiche pervasive, sono accompagnate da sintomi quali: declino cognitivo, disturbi del movimento e, in molti casi, una morte prematura.
In parallelo, il diabete di tipo 2, una malattia endocrina, può innescare disturbi circolatori, nervosi e immunitari, che impattano significativamente sulla salute complessiva.
Come detto, ciò che accomuna queste malattie, è il ruolo centrale dell’aggregazione proteica nel loro sviluppo. Le proteine, tra cui alcuni ormoni, svolgono infatti un ruolo fondamentale nelle funzioni cellulari normali.
Tuttavia, quando queste proteine iniziano ad aggregarsi in modo anomalo, si scatena un processo patologico che contribuisce all’insorgenza delle malattie.
In particolare, la formazione di placche amiloidi nel cervello caratterizza l’Alzheimer, mentre nel Parkinson si evidenziano aggregazioni di proteine come l’alfa-sinucleina.
Il diabete di tipo 2, da parte sua, è associato a fenomeni di aggregazione proteica che incidono sui meccanismi di regolazione insulinica, che contribuiscono alla compromissione del metabolismo glucidico.
«Il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson sono associati all’accumulo di grumi in regioni specifiche del cervello, causati rispettivamente da proteine chiamate tau e alfa-sinucleina».
«Nel diabete di tipo 2, circa il 70% dei casi coinvolge un ormone chiamato polipeptide amiloide delle isole, o IAPP, che si accumula nel pancreas», spiega Fortin.
«Alcune forme di demenza sono caratterizzate dalla presenza sia di tau, sia di alfa-sinucleina aggregate nel cervello. Esiste anche un’interconnessione tra diabete di tipo 2 e malattie neurodegenerative. Studi recenti hanno trovato più di una proteina aggregata nel pancreas e nel cervello, indicativo dei cosiddetti effetti di “semina incrociata” di queste proteine deformi».
Questa convergenza nell’aggregazione proteica suggerisce la possibilità di sviluppare approcci terapeutici comuni per queste malattie eterogenee.
Composti innovativi in grado di inibire l’aggregazione proteica
Ed è proprio in questo contesto che i ricercatori della Purdue University hanno recentemente compiuto un passo significativo.
Innanzitutto, Fortin ha sottolineato che le attuali modalità di trattamento per queste malattie si focalizzano principalmente sul mitigare i sintomi.
Di contro, il team sta dirigendo i suoi sforzi verso bersagli più profondi, concentrandosi specificamente sulla IAPP (Islet Amyloid Polypeptide) nel diabete di tipo 2, sulla tau nell’Alzheimer e sull’alfa-sinucleina nel Parkinson.
Attraverso la creazione di composti innovativi, capaci di inibire l’aggregazione proteica, la ricerca potrebbe pertanto rivelarsi “rivoluzionaria”, sia per quanto riguarda il sollievo dei sintomi, sia per il trattamento.
In che modo?
L’importanza di un approccio multi-targeting
Invece di concentrarsi su un singolo aspetto, la ricerca si orienta verso un trattamento integrato, che prende di mira contemporaneamente diverse componenti chiave coinvolte nell’aggregazione proteica. Questa “prospettiva olistica”, stando alle dichiarazioni della ricercatrice, si configura come l’opzione più promettente per affrontare le sfide imposte da malattie croniche come l’Alzheimer, il Parkinson e il diabete di tipo 2.
«Il nostro obiettivo è offrire terapie basate su piccole molecole che non solo prevengano l’aggregazione, ma disaggregino anche i gruppi già esistenti», precisa Fortin.
«Il corpo può quindi eliminare questi sottoprodotti e la duplice azione di questi composti. Può impedire la ridistribuzione dei grumi lungo i vasi sanguigni (il rischio di tale ridistribuzione è l’emorragia intracranica nel cervello)».
Il potere delle piccole molecole
I ricercatori hanno sviluppato una libreria di composti di piccole molecole, caratterizzati da strutture chimiche simili, che mirano al trattamento di entrambe le malattie neurodegenerative.
Per valutare la loro efficacia, è stata eseguita un’analisi dell’attività di inibizione dell’aggregazione proteica a livello micromolare. Misurazione che fornisce una visione dettagliata dell’efficacia di questi composti.
«Due composti hanno inibito in modo significativo la formazione di oligomeri, che sono polimeri che hanno relativamente poche unità ripetitive», rimarca Fortin.
«Questi composti attraversano la barriera emato-encefalica e raggiungono il cervello in modelli di roditori, il che rappresenta un grande passo avanti. Bloccano la formazione di inclusioni formate dall’aggregazione dell’alfa-sinucleina, in un modello cellulare gestito da mio collaboratore, Ulf Dettmer del Brigham and Women’s Hospital e della Harvard Medical School. Stiamo cercando finanziamenti per comprendere i precisi meccanismi d’azione di queste piccole molecole che terminano gli oligomeri».
Dettagli sulla somministrazione dei farmaci
I composti sviluppati dalla Purdue University potrebbero essere somministrati attraverso l’utilizzo di “vettori” come il lattosio, il mannitolo e la cellulosa microcristallina.
Un metodo che, oltre ad essere efficiente, può anche contribuire a mitigare eventuali effetti collaterali indesiderati.
«Questa strategia si dimostra promettente come terapia di trattamento del passo successivo per il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson», prosegue Fortin. «Mostra anche potenziale adattabilità per altre malattie neurodegenerative analoghe come la malattia di Huntington, la demenza a corpi di Lewy, l’encefalopatia traumatica cronica, o CTE, e le encefalopatie spongiformi trasmissibili, o TSE».
Creazione di trattamenti per il diabete di tipo 2
Per quanto riguarda il diabete di tipo 2, Fortin e i suoi colleghi hanno scoperto tre composti di piccole molecole, in grado di inibire la formazione di IAPP, che si aggrega nel pancreas di molti pazienti affetti dalla patologia.
«Queste piccole molecole hanno ridotto l’aggregazione di IAPP a circa 25-100 micromolari dopo un’ora. Inibiscono anche la formazione di oligomeri di IAPP».
«Esse agiscono sulla forma umana e felina dell’IAPP e potrebbero essere sviluppate ulteriormente per il diabete umano e felino. Non sono tossiche per le linee cellulari beta cancerose di topi e ratti. I meccanismi della loro azione sono ancora oggetto di studio».
Il prossimo passo
Fortin e il suo team continueranno a sviluppare entrambe le linee di trattamento presso i laboratori del College of Veterinary Medicine e del Purdue Institute for Drug Discovery.
«Condurremo ulteriori studi di prova, concentrandoci sull’ottimizzazione dell’effetto dei composti». «Studieremo anche la farmacocinetica e la farmacodinamica dei composti, ovvero il modo in cui si muovono all’interno del corpo e quali effetti hanno sul corpo. I dati preliminari hanno dimostrato che cinque composti rappresentativi erano presenti nel cervello dopo l’iniezione nei topi».
Fonte
Materiale fornito dalla Purdue University